Rassegna stampa

Il paradosso dei cattolici

di Gustavo Zagrebelsky


L’esistenza nella galassia cattolica di “cattolici democratici” è di per sé stessa la dimostrazione di una difficoltà non risolta nel rapporto tra democrazia e cattolicesimo. Se la difficoltà non ci fosse, l’aggettivo specificativo sarebbe superfluo. Il fatto che vi siano cattolici che si auto-definiscono democratici significa sì che il cattolicesimo è compatibile con la democrazia, ma anche che la democrazia non è coessenziale al cattolicesimo, perché esso contempla anche l’antidemocrazia. Se poi consideriamo che i cattolici democratici, per loro stesso riconoscimento, nel loro mondo sono oggi minoranza, la conclusione preoccupante è che, dalla maggioranza, le regole della democrazia, se sono accettate, lo sono non per adesione, ma per sopportazione o per opportunità: se e finché non si prospettino convenienze migliori.


Queste affermazioni possono sembrare temerarie, considerando il contributo cattolico alla lotta di liberazione, all’elaborazione della Costituzione e alla partecipazione alla vita democratica nei decenni che ne sono seguiti. Ma, per l’appunto, il mondo cattolico è una galassia dove c’è di tutto e quel contributo alla democrazia, che nessuno potrebbe negare o sminuire, si accompagna al permanere di atteggiamenti d’altro genere, riserve mentali e aperte contraddizioni. Una frattura profonda ha separato, fin dalle origini, la democrazia moderna dal mondo cattolico e questa frattura, evidentemente, non è completamente sanata. La ricorrente accusa di “relativismo” rispetto ai “valori” è solo una denuncia aggiornata dei “deliramenti” democratici d’un tempo (enciclica Diuturnum illud del 1881).


Nel contesto di questa diffidenza antica si sviluppa la testimonianza che Rosy Bindi, una delle voci più impegnate a difendere l’identità e l’eredità dei cattolici democratici, ha reso in un libro-intervista con Giovanna Casadio (Quel che è di Cesare, Laterza, pagg. 144, euro 10). È una testimonianza di quel che la fede cristiana può portare come contributo all’ethos democratico. Ma è anche la prova della tensione che deriva non – come talora erroneamente si dice – dall’essere cittadino e credente al tempo stesso (come se la democrazia dovesse essere necessariamente atea o agnostica), ma dall’essere al tempo stesso cittadino e membro della Chiesa cattolica, quando essa – per così dire – si pone (in misura più o meno stringente, si è sempre posta) come organizzazione dell’obbedienza nelle cose temporali. Non sono le fedi, laiche o religiose, a creare difficoltà. Esse, in quanto vissute nella libertà e nella responsabilità, non impediscono la democrazia, anzi l’arricchiscono. È nella duplice appartenenza allo Stato democratico e alla Chiesa come potere disciplinare, la radice della difficoltà. Due lealtà possono entrare in conflitto; doveri diversi possono contrapporsi. Il cittadino, per rispettare se stesso, dovrebbe negare il credente; il credente, per non contraddire il suo vincolo confessionale, dovrebbe negare il cittadino.


Non è vero, infatti, che le due appartenenze si completino a vicenda. Il conflitto è in agguato. La democrazia presuppone l’apertura al dialogo fecondo, cioè non per finta, in vista di accordi e, ove occorra, di compromessi. Esige, in una parola, atteggiamenti non dogmatici ma laici.


L’appartenenza alla Chiesa puo invece creare situazioni drammatiche di aut-aut: o dentro o fuori, o obbedienza o tradimento e scomunica. Due logiche che, quando si scontrano radicalmente, creano difficoltà e sofferenze che possono risolversi solo con la capitolazione di una delle due parti. Anche il famoso caso, citato anche nell’Intervista, di Alcide De Gasperi che resiste al Diktat politico del Papa minacciando le dimissioni da presidente del Consiglio, ne è la riprova. Fu Pio XII a recedere, cioè a capitolare. Non fosse stato così, le dimissioni di De Gasperi, dal punto di vista dei suoi doveri civili sarebbero state non una dimostrazione di laicità, ma a sua volta una capitolazione di fronte a una pretesa clericale. Tra i doveri civili, non c’è infatti quello di lasciare il proprio posto, se la Chiesa si inalbera.


La riflessione di Rosy Bindi tocca molti problemi, di teoria e di pratica politica, e li tocca in modo tale da mostrare le possibilità d’integrazione del cattolicesimo democratico nella vita politica comune, al di là dello steccato confessionale. E mostra altresì il contributo di umanità, giustizia e solidarietà ch’esso è in grado di dare, un contributo al quale i non cattolici non possono essere indifferenti. Ma questa riflessione non tace le difficoltà che derivano dalla posizione politica che la Chiesa Cattolica è venuta assumendo negli ultimi anni, con l’allontanamento progressivo dallo spirito del Concilio Vaticano II. È un regresso, le cui conseguenze sono denunciate a chiare e brucianti lettere, con espliciti riferimenti alla politica della CEI del cardinal Ruini: «Purtroppo, smarrita la memoria storica e rimossi i fondamenti della Costituzione e del Concilio Vaticano II, siamo finiti dentro la contraddizione strumentale che la destra sta facendo della religione. C’è un ritorno al passato, abbiamo bruciato un secolo di storia». C’è solo da aggiungere due cose: che “quest’uso blasfemo della fede” non è solo della “destra” e trova spesso la calda riconoscenza della gerarchia ecclesiastica.


Gli ambienti curiali, cattolici e atei, denigrano questo genere di considerazioni come trita lamentazione sul “concilio tradito”. Non è così. È invece la puntuale registrazione di una strategia fatta innanzitutto di irrigidimenti disciplinari nei confronti dei fedeli, frequentemente richiamati all’ordine gerarchico perfino in occasioni elettorali, e poi di accordi di potere tra vertici della Chiesa e vertici politici, dove l’obbedienza prestata dai cattolici alla gerarchia diventa strumento di pressione, se non di ricatto, nei confronti dell’autorità civile. Tutto questo si è visto all’opera con i “non possumus”, i “richiami impegnativi”, l’appoggio o il ritiro dell’appoggio a questa o quella formazione politica, a questo o quel governo, fino a condizionarne l’esistenza o la sopravvivenza. Una Chiesa così potrà pure richiamarsi, davanti al popolo dei suoi credenti, alla propria funzione di traghettatrice delle loro anime nel mondo che ha da venire; ma, per l’intanto nel mondo che c’è, essa è una struttura di potere (cioè di peccato), che divide gli animi e fa della fede religiosa, usata in quei modi, una ragione di conflitto.


Rosy Bindi cita un insegnamento di Pierre Claverie, il domenicano ucciso nel 1996 in Algeria, a causa del suo impegno alla comprensione tra i popoli, un insegnamento che contiene la chiave per comprendere come una fede religiosa può integrarsi nella democrazia, cioè in una “vita buona” per tutti: «Esiste solo un’umanità plurale e quando pretendiamo di possedere la verità o di parlare in nome della verità, cadiamo nel totalitarismo e nell’esclusione. Nessuno possiede la verità, ognuno la cerca (…) spigolando nelle altre culture, negli altri tipi di umanità, ciò che anche gli altri hanno compreso, hanno cercato nel loro cammino, verso la verità: Sono credente, credo che c’è un Dio, ma non pretendo di possedere quel Dio. Non si possiede Dio. Non si possiede la verità e io ho bisogno della verità degli altri».


Questo è l’atteggiamento di umiltà e, al tempo stesso, di fiducia negli esseri umani e di disponibilità al lavoro comune che costituiva l’anima del Concilio Vaticano II, di cui la Gaudium et spes è l’espressione: la libertà dei credenti in re sociali, accanto agli uomini di buona volontà, la loro responsabilità di fronte a Dio e ai propri fratelli, il divieto di invocare l’autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, divieto che, simmetricamente, non poteva non implicare l’astensione della Chiesa stessa da interventi vincolanti la coscienza dei cattolici. La presenza cattolica nelle società umane era concepita come lievito che opera dall’interno, dipendendo dalla forza persuasiva della testimonianza che può venire dalla vita cristiana, vissuta con coerenza. C’è un’immagine, nell’enciclica Ecclesiam suam (1964) del papa Paolo VI che esprime bene quest’idea: i centri concentrici in cui si diffonde la testimonianza cristiana, fino a raggiungere l’intera umanità.

Nell’insegnamento del Concilio, quella che, legittimamente, per i credenti è verità si trasforma, nei confronti della società nel suo complesso, in esempio, carità. È l’unico modo per porsi in posizione amichevole. Invece, ora assistiamo, nell’insegnamento del papa Benedetto XVI, all’insistenza sempre più marcata sulla verità unita in binomio alla ragione: la verità della Chiesa è unica verità di ragione, e la ragione è universale. Così, la verità cattolica pretende che non solo i credenti ma anche i non credenti pieghino il ginocchio. Quest’audace operazione teologica si trasforma in una pretesa universalistica della Chiesa. I non credenti, per così dire, impenitenti, diventano nemici non solo della verità, ma anche della ragione. Un innegabile capovolgimento del Concilio.


In questo contesto si spiega l’invito che il papa Benedetto XVI rivolge ai non credenti affinché essi, per quanto privi di fede, si adattino ad agire veluti si Deus daretur, come se Dio (anche per loro) esistesse. Non sarebbe la fede a esigerlo, ma la ragione. A questo detto papale Bindi, nelle pagine finali, esprime la sua adesione. Questo è forse l’unico mio punto di dissenso, tra le tante cose che l’intervista ci dice e che testimoniano dell’appassionata ricerca dell’Autrice circa il modo d’essere, senza contraddizione, cristiana e cittadina, insieme. Gli inviti al come se sono inaccettabili. L’agire come se Dio esistesse è una provocazione nei confronti dei non credenti. Essi dovrebbero contraddire la loro coscienza e seguire non la loro ragione, ma quella proclamata dalla Chiesa come verità. Il rispetto reciproco non è compatibile con questo genere di inviti.


fonte: La Repubblica del 7 ottobre 2009