Rassegna Stampa

Democrazia: che cosa si rischia senza l’informazione

Riflessione su un sistema e sui suoi nemici

di Nadia Urbinati




Si chiama il destino della democrazia. Relativismo e universalizzazione ed è il convegno che si svolgerà il 21, il 22 e il 23 maggio a Castel dell' Ovo a Napoli del Nisa (Network of Italian Scholars Abroad) la rete degli studiosi italiani con incarichi nel Nord America, nata per iniziativa dell' Istituto Italiano di Scienze Umane. Tre giorni di dibattito e confronto tra studiosi di scienza politica, giuristi, sociologi, economisti, filosofi, storici e antropologi, studiosi di letteratura. Tra cui Remo Bodei, Nadia Urbinati, Nadia Fusini e Roberto Esposito.


Al convegno parteciperà anche il Premio Nobel per l' Economia Douglass C. North e le conclusioni saranno affidate a Giovanni Sartori, docente emerito dell' Università di Firenze e della Columbia University.


La democrazia non ha un altrove nel senso che i suoi fondamenti non stanno fuori o al di sopra di essa e nel senso che in nessun altro sistema come in questo è cruciale che mezzi e fini non siano in disaccordo. È questo il senso della massima che Alexis de Tocqueville ricavò dal suo viaggio in America: la democrazia non ci dà la certezza di ottime o anche buone decisioni (spesso anzi le sue decisioni sono pessime); ciò che ci dà è la certezza di poter emendare e cambiare quelle decisioni senza il rischio o il bisogno di revocare l' ordine politico. In questo senso quello democratico è un sistema che ha dentro di sé il suo punto archimedeo, che non ha un altrove. Tuttavia, solo la democrazia rappresentativa è riuscita a realizzare la massima di Tocqueville e a vanificare i suoi nemici. Il demos ateniese non è mai riuscito a incorporare gli oligarchi e l' anti-democrazia ha condizionato la sua identità ideologica e istituzionale. (...)


La democrazia dichiarava la propria autorità oltre l' imperium; dichiarava che fuori di essa non c' era ordine legittimo e che la sua legittimità era etica non solo istituzionale. Questo scopo, le democrazie moderne lo hanno raggiunto scrivendo costituzioni, costruendo le loro istituzioni su premesse che tutti nella condizione ipotetica dell' atto fondativo possono comprendere e accettare: come scrisse Hannah Arendt in On Revolution, i Padri fondatori americani pensarono al loro ordine in termini di eternità non di una temporalità definita. Seguendo questo stesso criterio, John Rawls ha congetturato la posizione originaria sub specie aeternitatis. (...)


La collocazione dei pochi è il problema. Lo aveva ben compreso Niccoló Machiavelli, quando nei Discorsi ricordava ai nemici del governo della multitudine che non sono i molti ad avere il desiderio di esercitare il poteree prendere parte attiva alla politica, ma i pochi. Ai molti è bastante sapere di essere sicuri nella libertà personale, nei possessi e nella tranquillità domestica e del lavoro. Essere non dominati è per i molti sufficiente. Ma non lo è per i pochi o i grandi. Questi devono poter soddisfare la loro passione per il potere; e i buoni ordini, ammoniva Machiavelli, sono quelli che sanno contenere l' hybris dei pochi attraverso un sistema di controllo e di partecipazione che coinvolga i molti; o, per ripetere James Madison, attraverso i checks and balances e la rappresentanza.


Se, come ha con chiarezza analitica dimostrato Robert Dahl, i pochi, non i molti sono il problema, allora sembra legittimo pensare che i moderni siano riusciti a vincere la loro battaglia contro i nemici politici della democrazia meglio degli antichi. La loro strategia vincente è stata, più ancora che la costituzione scritta (che, come ben sappiamo, può essere ignorata e violata), la rappresentanza. Perché, come ben compresero i federalisti americani, essa soddisfa l' interesse dei molti a controllare e quello dei pochi a non vedersi fatalmente in minoranza.


Il potere deterrente delle elezioni sta nel fatto che esse hanno la capacità di stimolare attivismo decisionale in coloro che possono essere resi responsabili ( accountable ): nei rappresentanti cioè, non nei cittadini. I politici eletti sono sufficientemente controllati, dice la teoria elettoralistica della democrazia, dalla preoccupazione dei sondaggi e dal desiderio di essere rieletti. Ecco perché, come ha osservato Giovanni Sartori, «una volta che ammettiamo il bisogno di elezioni, minimizziamo la democrazia per la semplice ragione che riconosciamo che il demos non riesce da se stesso a far funzionare il sistema politico». Il meccanismo elettorale rende la partecipazione diretta inessenziale per il funzionamento e la sicurezza delle istituzioni. Tuttavia, la politica democratica non è solo partecipazione diretta.


Dunque, con la rappresentanza, i pochi hanno trovato la loro collocazione e ciò ha contribuito a stabilizzare la democrazia. La differenza tra antichi e moderni è qui notevole. Perché le nostre costituzioni sono riuscite a preodinare, regolandole, tutte le forme di dissenso e a rendere la lotta per il potere una strategia stabilizzante. (...) Sembra dunque di poter dire che la democrazia moderna non ha più nemici perché è riuscita a renderli parte del giuoco politico. Vista da questa angolatura, la rappresentanza non è una violazione della democrazia, ma invece il mezzo che l' ha rafforzata liberandola da quell' antitesi radicale che per secoli l' ha tenuta sotto scacco - moderando non solo o tanto il potere dei molti ma in modo particolare quello dei pochi. (...)


Alcune costituzioni sono più attrezzate di altre. L' articolo5 della Costituzione della Repubblica federale tedesca dichiara che «ognuno ha diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni con parole, scritti e immagini, e di informarsi senza impedimento attraverso fonti accessibili a tutti». La nostra Costituzione non è altrettanto esplicita nel proclamare la libertà dei cittadini di essere informati, benché l' evoluzione della nostra giurisprudenza (anche grazie allo stimolo di quella comunitaria) è andata nella direzione dell' affermazione della libertà di informazione, sia come libertà di esprimere opinioni che come diritto a essere informati (una libertà che leggi improvvide hanno vanificato permettendo la formazione di fatto di un sistema di monopolio privato dell' informazione e non liberando il servizio radiotelevisivo pubblico dal dominio del parlamento e quindi della maggioranza).


L' informazione mette in atto due forme di libertà: quella civile o dell' individuo e quella politica o del cittadino. Essa sta insieme al processo di formazione dell' opinione: come cittadini democratici abbiamo bisogno di sapere per poterci formare un' opinione e decidere; e abbiamo bisogno di sapere per controllare chi decide. Diceva Thomas Jefferson che è preferibile una società senza governo ma con molti giornali a una con un governo ma senza giornali.


L' informazione è un bene pubblico come la libertà e il diritto (e come libertà e diritto non è a discrezione della maggioranza); un bene del cittadino, non soltanto dell' individuo. È soprattutto un bene che ci consente di avere altri beni: di monitorare il potere costituito, di svelare ciò che esso tende a voler tener segreto. L' informazione fa parte perciò dell' onorata tradizione dei poteri negativi o di controllo, anche se il suo è un potere indiretto e informale.


Senza questo controllo le democrazie moderne sono a rischio, anche qualora il diritto di voto non sia violato; anche qualora non ci sia più, nemmeno nell' immaginario, l' idea di un altrove rispetto alla democrazia; anche qualora la democrazia non abbia più nemici politici.

fonte: da "La Repubblica" del 19 maggio 2009