tratto da Corriere del Ticino www.cdt.ch, del 27.03.09
Chi pagherà il conto della crisi?
Pechino chiede la riforma del sistema monetario mondiale
di ALFONSO TUOR
Chi pagherà il conto di questa crisi? La risposta a questa domanda, che diventa di giorno in giorno più inquietante, è ormai sempre più chiara. Negli scorsi giorni vi sono state due autorevoli prese di posizione che confermano che l’interrogativo comincia a tormentare anche i governi. Una è stata quella di Mirek Topolanek, primo ministro ceco dimissionario e presidente di turno dell’Unione Europea, il quale davanti al Parlamento europeo ha detto: «le politiche americane ci porteranno alla rovina». L’altra presa di posizione è stata quella della banca centrale cinese che, nel modo indiretto proprio della cultura di quel Paese, ha pubblicato un documento nel quale si delinea «la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su una valuta di riserva internazionale senza legami con alcuna nazione (ndr.: il riferimento al dollaro è evidente) e in grado di assicurare una stabilità di lungo termine».
Queste due prese di posizioni esprimono identiche preoccupazioni. La differenza sta nel fatto che il leader ceco pensa agli enormi guai prossimi venturi, mentre Pechino pensa all’assetto del mondo dopo i disastri che provocherà questa crisi e invoca quindi una nuova Bretton Woods, dicendo sostanzialmente a Washington: non pensate che tutto ritornerà come prima e che gli Stati Uniti potranno contare ancora sui vantaggi dati dal ruolo di moneta internazionale del dollaro.
Il presidente di turno europeo ha completamente ragione a sostenere che le politiche seguite dall’amministrazione Obama e dalla banca centrale americana porteranno alla rovina. Gli Stati Uniti stanno infatti operando il trasferimento allo Stato delle colossali perdite nascoste nel sistema finanziario. Questo è ad esempio il senso del piano salvabanche presentato lunedì scorso, grazie al quale viene affidato proprio agli Hedge Fund, tra i principali responsabili della crisi, il compito di acquistare grazie a linee di credito garantite dallo Stato i titoli tossici e i prestiti in sofferenza delle banche. Questo è pure il senso delle diverse operazioni da migliaia di miliardi di dollari lanciate dalla banca centrale americana. Tali operazioni vengono finanziate o attraverso l’ampliamento del disavanzo statale (quest’anno il deficit federale americano supererà il 12% del PIL) o attraverso la stampa di nuovi dollari da parte della Federal Reserve (si prevede che la base monetaria che è già raddoppiata, raddoppierà un’altra volta entro la fine dell’anno). Questi interventi plurimiliardari, avviati a partire dall’agosto del 2007, non hanno né risanato il sistema bancario (per ora ne hanno solo evitato il collasso), né impedito che la crisi finanziaria si trasformasse in una durissima recessione globale.
Europei e cinesi in testa stanno ora capendo che l’amministrazione Obama si è piegata ai voleri di Wall Street e che quindi il buco nero nascosto nei bilanci delle banche rischia di risucchiare tutto e tutti. La conseguenza a breve termine di queste politiche è una crisi di fiducia nei titoli con cui gli Stati finanziano il debito pubblico. I segnali premonitori non mancano: l’ultimo in ordine di tempo è venuto dalla Gran Bretagna, dove per la prima volta da sette anni a questa parte è fallita un’asta di titoli pubblici, nonostante la decisione della Banca d’Inghilterra di acquistarne per più di 100 miliardi di euro. La crisi del debito pubblico è destinata a provocare un’ulteriore escalation degli interventi delle banche centrali. Queste ultime sarebbero chiamate a comprarne in grandi quantità e a stampare ulteriore moneta. Con quali conseguenze? Una forte inflazione, se vi sarà l’interludio di una breve ripresa, oppure in alcuni Paesi (i principali candidati sono Gran Bretagna e Stati Uniti) crisi valutarie ed iperinflazione. Ciò vuol dire per il cittadino un’impressionante distruzione del risparmio privato e di quello pensionistico, ma per l’oligarchia finanziaria uno strumento ideale per distruggere il valore dell’enorme quantità di attività tossiche detenute dalle grandi banche.
A questa politica si oppone l’Europa continentale, che - come ha ricordato il presidente di turno dell’UE - è perfettamente consapevole che la strada dell’esplosione dei debiti pubblici e del ricorso alla stampa di nuova moneta porterebbe il mondo alla rovina. Mentre in vista del prossimo vertice del G20 che si terrà a Londra il 2 aprile l’Europa continentale resiste alle richieste americane di moltiplicare gli interventi a sostegno dell’economia, la Cina pensa all’assetto del mondo dopo questa crisi. Pechino è consapevole che perderà gran parte dei 700 miliardi di dollari investiti in titoli del Tesoro americano e lo sta già spiegando alla popolazione cinese. Il capo del Governo Wen Jiabao ha infatti dichiarato: «Abbiamo prestato molto denaro agli Stati Uniti e ora siamo preoccupati per la sicurezza dei nostri investimenti». Il Governo sa pure che l’interruzione di questi acquisti potrebbe avere conseguenze politiche molto pericolose e quindi ha ribadito ufficialmente che «la Cina continuerà ad acquistare i titoli di Stato americani».
La disponibilità cinese ha però un prezzo e questo prezzo è molto alto soprattutto per gli Stati Uniti. Pechino chiede la riforma del sistema monetario internazionale (una nuova Bretton Woods) con l’obiettivo di creare una moneta di scambio sovranazionale al posto del dollaro. Le autorità cinesi pensano che questa funzione possa essere assolta dai Diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale. La delegazione cinese giocherà questa carta già il prossimo 2 aprile a Londra, quando per aderire alle richieste americane ed europee di ricapitalizzare l’FMI, operazione necessaria per aiutare i Paesi emergenti in difficoltà, in primis quelli dell’Europa dell’Est, chiederà in cambio una ridistribuzione delle quote del Fondo, che ne fanno oggi un organismo controllato dai Paesi occidentali.
La proposta di creare una valuta sovranazionale corrisponde all’idea presentata nel 1944 a Bretton Woods da John Maynard Keynes, che venne però bocciata dagli Stati Uniti, i quali imposero un sistema imperniato sul dollaro. Essa va al cuore del problema: l’attuale crisi è anche una crisi degli Stati Uniti e del dollaro e non può essere superata solo con il cambiamento di alcune regole del sistema finanziario. Occorre invece un nuovo sistema monetario che tenga conto dei mutati rapporti di forza a livello internazionale. L’idea cinese ha raccolto immediatamente il sostegno di Russia ed India, ma si è scontrata con l’opposizione di Washington. È evidente che gli Stati Uniti non vogliono perdere i grandi vantaggi dati dal ruolo di valuta internazionale del dollaro. Pechino ha comunque detto in modo chiaro agli americani che i rapporti di forza mondiali sono cambiati e che gli Stati Uniti non possono pensare di uscire da questa crisi, preservando il primato del dollaro e quindi anche il loro primato politico. Insomma, la Cina ha preannunciato quale sarà il prezzo politico che gli Stati Uniti dovranno pagare per questa crisi.