Rassegna Stampa

A colloquio con monsignor Robert Sarah,
segretario della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli

L'Africa deve pensare agli africani e non cedere ai potenti di turno
di Mario Ponzi

"Anche l'Africa ha le sue colpe". Ne è convinto l'arcivescovo monsignor Robert Sarah, segretario della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, che dal 1979 al 2001 è stato pastore dell'arcidiocesi di Conakry, nella Guinea. "Per questo - spiega - sarà molto importante la celebrazione della prossima assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei vescovi, così come molto importante, oltreché emozionante per chi è africano come me e ha avuto la gioia e la grazia di potervi assistere, è stata la visita di Benedetto XVI". Sono alcune riflessioni ispirate dal viaggio del Papa in Camerun e Angola, al quale ha partecipato come componente del seguito, che monsignor Sarah ha confidato a "L'Osservatore Romano" in questa intervista raccolta sull'aereo che ha riportato il Pontefice a Roma a conclusione della visita.


Quali sono le sensazioni e le emozioni di un vescovo africano al seguito del Papa nel suo primo viaggio in Africa?


Ho vissuto questo momento come una grazia ricevuta. Per quel che riguarda il viaggio la prima cosa che mi ha molto colpito - anche se, in quanto africano, non avrei dovuto restarne meravigliato - è stata il sentimento che gli africani hanno mostrato di avere verso il Papa. In lui è come se realmente vedessero il vicario di Cristo. Dunque con Benedetto XVI hanno rivissuto la loro fede in Gesù. Una fede gioiosa che si esprime nel canto, nel ballo, perché malgrado la sofferenza, Cristo è sempre per gli africani la speranza, la sorgente della gioia. Una gioia che non è soltanto umana, ma che sperimentiamo dentro di noi. Anche per questo sono felice dell'accoglienza riservata al Pontefice.


Speranza è stata la parola più ricorrente nel viaggio. Secondo lei in cosa dovrebbe concretizzarsi questa parola per il futuro dell'Africa?


Il primo significato che dobbiamo dare alla speranza dell'Africa, intanto, non è di natura economica e politica. La speranza dell'uomo africano deve essere soprattutto fondata su Dio, perché è in lui la vera felicità. Tuttavia il Papa ha lanciato un appello sia verso l'Africa, sia verso il mondo progredito perché aiuti questo popolo a rialzarsi. In primo luogo, spegnendo i conflitti che ancora tormentano alcune popolazioni. Solo dopo si può avviare uno sviluppo economico fondato sulla solidarietà degli africani con gli africani, del resto del mondo con l'Africa. Per questo c'è bisogno della pace. Per questo Benedetto XVI ha chiesto la fine del turpe commercio delle armi. I Paesi ricchi devono smettere di vendere armi, di contribuire ad alimentare conflitti. Devono imparare a rispettare più da vicino la cultura e i bisogni reali degli africani. Anche se ciò non basta. Ecco allora che la speranza umana si trasforma in speranza sovrumana, in speranza in Gesù Cristo, che è la nostra speranza, che è la nostra fede, il nostro futuro.


Certamente i Paesi che vendono armi sono da condannare. Però in Africa c'è chi quelle armi le compra.



Il problema è che chi vende le armi all'Africa, vende anche protezione in cambio dello sfruttamento delle ricchezze della terra.



Ma, alla fine, chi accetta questo commercio è africano.



È vero, anche certi africani sono colpevoli: non posso dire che non lo siano. Sono colpevoli soprattutto quei capi di Stato e i loro collaboratori che non vedono la miseria del popolo e dunque accettano questo commercio di armi. Sono certamente questi personaggi a dover troncare il commercio delle armi in Africa. Devono cominciare a sfruttare le nostre ricchezze per il bene del popolo, non soltanto per arricchire loro stessi e le loro famiglie. Il Papa lo ha detto molto chiaramente e più di una volta nei suoi discorsi: il mandato che hanno ricevuto va usato per il bene comune. E ha anche detto altrettanto chiaramente che l'Africa è ricca, è forte, e dunque non deve cedere al più forte di turno. Sono gli africani a dover vigilare perché ciò non accada più. Le risorse vanno utilizzate per sconfiggere la miseria, per creare ospedali, scuole, strade. In questo noi effettivamente siamo colpevoli.



Il Papa ha lanciato questo messaggio più volte. Pensa che gli africani lo comprenderanno? E cosa potranno fare per dare seguito ai suoi appelli?



Credo che i tempi siano ormai maturi perché l'africano capisca che non possiamo continuare a gestire l'Africa così, cioè solo in modo egoistico. Alcuni hanno già iniziato il cammino verso lo sviluppo: Costa d'Avorio e Nigeria, per esempio, hanno intrapreso bene questo cammino. Mi auguro che a poco a poco anche altri capi di Stato comprendano che la felicità di un leader politico è dare la felicità al suo popolo. Il bene di un padre è dare benessere ai suoi figli. Io spero vivamente, dunque, che il messaggio del Papa sia recepito in questo senso e fatto proprio da tutti gli africani, soprattutto dagli uomini forti.



Un altro dei motivi ricorrenti nei discorsi del Papa è stata la necessità di puntare più sulla qualità che sulla quantità delle vocazioni. Come Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, quali indicazioni avete dato?



Siamo molto attenti a questa problematica. Da tempo esortiamo i responsabili delle vocazioni nei territori sottoposti alla nostra cura, a prestare molta attenzione: non si tratta di accettare tante vocazioni ma di qualificare soprattutto la formazione dei diversi sacerdoti. Siamo consapevoli del fatto che non basta avere tanti sacerdoti: bisogna avere piuttosto sacerdoti motivati e qualificati. Il prete deve realmente essere colui che guida; ma se non è di esempio nella sua vita morale, se non è un esempio nel lavoro pastorale, non può guidare il popolo di Dio. Dunque cerchiamo di insistere sulla formazione dei sacerdoti, non soltanto nel seminario, ma anche dopo l'ordinazione. Cerchiamo di promuovere un modello di formazione continua, spirituale, umana; chiediamo ai preti di non staccarsi troppo dal popolo, di vivere con il popolo, di guardare alla sua miseria. Devono essere in grado di far capire alla gente che la miseria è causata da chi sfrutta, ma anche che ognuno può e deve lottare per uscire dalla miseria.



Il sacerdozio autoctono può aiutare l'inculturazione del Vangelo in Africa?



Non soltanto il sacerdote autoctono può farlo, ma i catechisti e il popolo di Dio nel suo insieme. L'inculturazione non è soltanto una cosa intellettuale: significa piuttosto lasciare Dio entrare nella nostra vita. Una volta entrato Dio in noi, cambia la nostra vita. Come Gesù Cristo ha preso la nostra natura umana per divinizzarla, l'inculturazione aiuta il popolo ad accettare Dio, ad accettare il Vangelo, lasciandolo penetrare sin dentro l'anima, in tutto il suo essere, nella sua cultura, nel suo modo di vivere. Così ci si sente veramente uomini nuovi. D'altra parte, bisogna anche avere la possibilità di esprimere la propria anima. Durante la visita del Papa abbiamo visto l'intensità dei canti, la gioia che gli africani esprimono nel movimento ritmico che accompagna le musiche. È chiaro che non basta cantare, non basta ballare: bisogna che Cristo stesso entri nel nostro modo di vivere. Così la preghiera diventa veramente un rapporto personale fra l'uomo e Dio, non soltanto una manifestazione cultuale.



Dalla Ecclesia in Africa alla seconda assemblea speciale del Sinodo dei vescovi, che cosa è cambiato?



Intanto credo che oggi ci sia un maggiore coinvolgimento del popolo di Dio come Chiesa. Ed è una cosa positiva, perché prima, forse, c'era troppa distanza tra il sacerdote e i laici; poi, proprio dopo il primo Sinodo, i laici hanno capito che anche loro sono Chiesa e devono lavorare: non soltanto quando c'è da organizzare una visita come quella che abbiamo vissuto, ma anche quando è il momento di evangelizzare la famiglia, i luoghi di lavoro, la società. È un impegno da proseguire. Soprattutto adesso che, dopo tanti anni drammatici, abbiamo la speranza che le guerre, grandi o piccole, si vadano via via spegnendo. È il momento nel quale i cristiani debbono lavorare per creare il giusto ambiente sociale per la riaffermazione della riconciliazione, della giustizia e della pace. Certo, è difficile parlare di riconciliazione a chi ha visto in faccia gli assassini di sua moglie o di suo figlio. Bisogna saper mostrare il Cristo crocifisso che perdona chi lo crocifigge. Se l'uomo vede Cristo crocifisso, potrà imitarlo. Credo che sia necessario far penetrare Cristo nella cultura africana. Questo può cambiare a poco a poco l'Africa. La seconda assemblea sinodale continentale sarà un passo in avanti su questa strada. Sarebbe importante, a questo punto, coinvolgere non soltanto i cristiani, ma anche i capi di Stato. Loro sono i responsabili, i referenti politici, anche se non sono cristiani. Bisogna seminare il Vangelo ovunque nel terreno africano, dove sono i cristiani e anche i non cristiani.



È importante che il Papa abbia voluto che questa assemblea sinodale iniziasse idealmente in Africa?



Sicuramente. Nel suo appello non soltanto si è indirizzato alle Chiese, ai vescovi, ai cristiani, ma parlando ai presidente di Angola e Camerun è stato molto chiaro: il Pontefice vuole coinvolgere tutta l'Africa in questo cammino sinodale. Sicuramente è un gesto di affetto del Papa e della Chiesa universale verso l'Africa e per l'Africa stessa. Speriamo possa essere un nuovo cammino per un cristianesimo più forte, più interiore. Benedetto XVI è un uomo molto interiore, nel modo di pregare, di parlare. Nel vederlo gli africani avranno compreso che non basta l'esteriorità, ma occorre l'interiorità della nostra fede. Questa è la mia speranza.
fonte: "Osservatore Romano" del 27 marzo 2009