IL GIORNO DELLA MEMORIA
La Shoah e il trionfo del male stupido
Alcuni passi dell'intervento di Claudio Magris per la celebrazione del Giorno della Memoria al Quirinale.
di Claudio Magris
La Shoah è la prova più terribile che ogni delitto è anche autolesionista, un suicidio, la distruzione di una parte di se stessi. Il Male è anzitutto stupido. I milioni di morti della Shoah sono anche un esercito di caduti che ha contribuito, involontariamente ma in misura determinante, a salvare la libertà nel mondo. Lo sterminio nazista non è stato solo un immane crimine, ma anche un delirante suicidio. Il patriottismo e anche il nazionalismo tedesco erano diffusi fra gli ebrei di Germania, che si sentivano spesso portatori della cultura tedesca - specie nell'Europa centro-orientale - e avevano combattuto con passione per la loro patria tedesca nel primo conflitto mondiale, come indica l'alto numero di croci di guerra loro assegnate. La grandezza della Germania si fondava pure sulla simbiosi ebraico-tedesca e il nazismo, distruggendola, ha distrutto la centralità politico-culturale della Germania in Europa.
Neppure il nazismo è riuscito sempre a sradicare l'amore ebraico per la Germania, talora paradossalmente tinto d'orgoglio. Si potrebbero citare molti esempi, come quel professor Kraus, deportato a Terežin dove muore a ottantaquattro anni e dove si ostina, fino alla morte, a tenere ai ragazzi deportati e morituri come lui corsi di letteratura su Lessing, Schiller, Goethe, citando a memoria lunghissimi brani del Faust, per trasmettere loro l'amore per quella letteratura. Così il fratello del grande studioso di mistica ebraica Gershom Scholem, anch'egli in gioventù convinto ammiratore della Germania di Lessing e di Goethe e riuscito a scampare allo sterminio, diceva tanti anni più tardi, in Israele, a chi lo provocava chiedendogli se era ancora di quell'opinione: «Certo. Non crederete mica che un Hitler qualunque possa farmi cambiare idea».
Senza i milioni della Shoah, senza le leggi di Norimberga, il nazismo sarebbe durato più a lungo, chissà quanto, per il male di tutta l'umanità. Gli ebrei hanno pagato per la salvezza del mondo più di tutti, per tutti. In questo senso, forse solo in questo senso, vale la definizione di «popolo eletto», che tanto irritava Croce - forse giustamente, nonostante alcune sue espressioni brutalmente fuori posto, su cui si è soffermato Roberto Finzi, poiché è ragionevole pensare che non esistano popoli prediletti né rifiutati. Ma è certo che con nessun altro popolo come con quello ebraico abbiamo tutti contratto un debito così alto.
La Shoah è uno spartiacque, dopo il quale il mondo non è più come prima e non lo si può pensare come prima. Il senso e l'ordine delle cose, il rapporto tra progresso e barbarie, il significato dell'umano, sono passati anch'essi attraverso i forni crematori. Dopo Auschwitz, ha scritto Adorno, è impossibile scrivere poesie; se vogliamo vivere, dobbiamo smentire questa sentenza, che infatti è stata smentita pure da poeti che hanno vissuto quell'orrore irrappresentabile, ma è impossibile scrivere poesie senza fare i conti con quel divieto, senza assumere nella poesia il peso di quella svolta mostruosa.
Naturalmente non basta condannare e aborrire. Occorre capire come e perché la Shoah ha potuto aver luogo. Anche la Shoah esige la comprensione storica e la storia, come sappiamo, non è né giustiziera né giustificatrice, bensì è - o dovrebbe essere - intelligenza delle cose. Ma con ciò si pone una contraddizione, in quanto la Shoah si è trasformata da storia criminosa a evento metafisico, a male assoluto, e rifiuta di essere compresa, superata in quel giudizio storico che è, diceva Croce, «oltre il rogo» e dunque più sereno che furente. Ma è possibile guardare alla Shoah con la serenità dello storico «oltre il rogo»? Non significherebbe smussarla, relativizzarla, ridurne l'orrore? D'altronde è angoscioso che la Shoah possa paralizzare per sempre ogni giudizio storico, «trascendere» la Storia - come afferma Wiesel - e dunque, in qualche modo, sconfiggere l'umana capacità di fare i conti con tutta la propria realtà, di cui si è artefici, vittime, complici, responsabili.
Ma come è possibile inquadrarla storicamente e contemporaneamente mantenere il senso della sua assolutezza? La Shoah non è l'unica inaccettabile infamia della storia. Altre infami violenze - i gulag, la tratta dei neri, molte altre - hanno fatto anche più vittime. Popoli interi sono periti nei secoli in violenze indicibili e sono scomparsi nell'oblio, cancellati perfino dalla memoria, periti senza avere la possibilità o la forza di far giungere a noi il grido della loro sofferenza, senza che noi ne abbiamo consapevolezza o memoria. Chi ricorda Trucanini, l'ultima tasmana, l'ultima rappresentante dell'estinto e sterminato popolo aborigeno della Tasmania, che, morendo nel 1876, chiese che il suo scheletro non venisse esposto al Tasmanian Museum come quello di una specie animale estinta, come invece avvenne, dal 1878 al 1947? Chi parla dei centocinquantamila morti in Guatemala negli ultimi trent'anni, 80% per mano dell'esercito e 20% per mano della guerriglia, secondo la recente denuncia del vescovo di San Marcos, Alvaro Ramazzini Imeri?
A questi milioni di oscuri di ieri dell'altro ieri di oggi dobbiamo altrettanta attenzione e memoria in quanto sono esposti all'ulteriore violenza dell'oblio, contro cui dobbiamo lottare. Della pietra rifiutata dai costruttori, sta scritto nell'Antico Testamento, il Signore farà la pietra angolare della sua casa. Questa pietra giace - ieri, oggi - nascosta, sepolta sotto le rovine e i rifiuti. Essa va ritrovata e custodita con amore e rispetto. La memoria è il senso della coralità di tutti gli uomini, anche di quelli in quel momento non visibili, che essa rende presenti; per questo la memoria ha un valore sacro ed è, nella tradizione ebraica, uno dei più profondi attributi di Dio. Il terribile primato ebraico della sofferenza non è il suo monopolio; la Shoah, scrive Sofsky, ci ricorda che quando c'è terrore esso alla fine colpisce tutta l'umanità.
Anche se altri stermini sono stati numericamente più vasti, la Shoah è un vertice dell'orrore per la simbiosi di barbarie e razionalità scientifica, di selvaggio e di tecnocratico, di arcaicità e modernità che è alla sua base. Inoltre, essa è l'unico caso in cui lo sterminio non sia stato il risultato collaterale di violenze sfruttamenti brutalità repressioni terrori, bensì un fine esplicitamente e intenzionalmente, scientificamente, programmato e voluto. (....) L'antisemitismo, che oggi vediamo con sgomento di nuovo all'opera, sia pur in sordina, può avere molte facce, anche molti nomi. Può chiamarsi antisionismo, quando nega allo Stato di Israele il diritto di esistere o ne auspica la distruzione, il che è ben diverso dal criticare, a torto o a ragione, l'una o l'altra politica dell'uno o dell'altro governo israeliano, suscettibile di critica o di consenso come ogni governo di ogni Paese. Lo stesso termine è ambiguo, perché presuppone una categoria razzial-zoologica, dai connotati metastorici; confesso di non sapere bene cosa significhi che io, ad esempio, sia ariano, mi troverei in difficoltà ancora maggiore a indicare con precisione i camiti e ad attribuire loro virtù o vizi eterni come le Idee platoniche; so che anche gli arabi sono semiti e che un generico disprezzo o odio nei loro confronti è antisemitismo bello e buono, perché Ismaele è figlio di Abramo. Certo, come dice un verso di Brecht, il grembo che produsse mostri quali l'antisemitismo è ancor fecondo.
Dopo l'antisemitismo - ha scritto Egon Schwarz, il saggista viennese di famiglia ebraica che riuscì a lasciare Vienna subito dopo l'Anschluss - la cosa peggiore è il filosemitismo. Il filosemitismo è infatti sospetto; può indicare una cattiva coscienza o la preoccupazione di nasconderla, agli altri o a se stessi; suona talora stridulamente come una excusatio non petita, una affannata ostentazione di sentimenti buoni o politicamente corretti. Il filosemitismo rivela spesso insicurezza e imbarazzo nei confronti degli ebrei e può coprire un represso e livido antisemitismo. Per quel che concerne Israele, chi considera la sua esistenza come una minaccia alla pace è indubbiamente antisemita e va bollato e combattuto. Altra cosa è il giudizio sulla politica dell'uno o dell'altro governo israeliano; giudizio che può essere contestato, ma che non per questo è lecito considerare espressione di antisemitismo, anche perché Israele, come ogni Stato, non può essere identificato tout-court con la politica dei suoi governi. Per questo pure Pier Vincenzo Mengaldo - il cui volume «La vendetta è il perdono» è una summa di tutta la letteratura sulla Shoah - ha auspicato, come avevo scritto anch'io, di «tener sempre distinta la Shoah dalle questioni che riguardano lo Stato d'Israele».
Siamo qui, oggi, per ricordare la Shoah tramite uno dei più grandi valori trasmessi dalla civiltà ebraica, la Memoria. Essa non è il passato, bensì l'eterno presente di tutto ciò che ha senso e valore: l'amore, la preghiera, l'amicizia, la sofferenza, la felicità. Tutto ciò che ha senso «fa parte della storia del cosmo», per citare un passo di Singer; ciò che è soltanto funzionale sparisce nell'oblio, appena esaurita la sua funzione, ma tutte le cose essenziali sono nell'eternità del loro presente.
Shakespeare è, non era, un poeta.
Memoria significa pure rapporto con la propria identità e consapevolezza - ma non stolta e feroce idolatria - di quest'ultima. La memoria è anche una garanzia di libertà; non a caso le dittature cercano di cancellare la memoria storica, di alterarla o distruggerla del tutto. Le tirannidi la deformano, i nazionalismi la falsificano e la violentano, il totalitarismo soft di tanti mezzi di comunicazione la cancella, con una insidiosa violenza che scava paurosi abissi fra le generazioni.
La memoria ebraica può parlare a nome di tutte le vittime del mondo e della storia. La memoria guarda avanti; si porta con sé il passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno, dice Bloch, il filosofo dell'utopia e della speranza che nutrì il suo pensiero sociale e rivoluzionario con lo spirito dei Profeti biblici, crede nella sua nostalgia di vedere nell'infanzia e che si trova invece in un futuro liberato, alla fine del viaggio.