Rassegna Stampa

SUDAFRICA, QUANDO IL RAZZISMO ERA DI STATO
di Maria Vittoria Adami

I Campionati del mondo di calcio del Sudafrica, quest’anno, avranno un significato particolare.
Nel 2010 si festeggia infatti il ventesimo anniversario dalla scarcerazione di Nelson Mandela e l’inizio del percorso di abbattimento della politica dell’apartheid, che divise la popolazione nera da quella bianca, in modo sistematico, nel 1948. Richiameranno anche l’atmosfera vissuta, nel 1995, in occasione dei Mondiali di rugby del Sudafrica, vinti dalla squadra di casa e celebrati dal film di Clint Eastwood, Invictus. Allora l’evento sportivo fu un’occasione di incontro e di abbattimento delle barriere e la vittoria sudafricana si arricchì di un molteplice significato.
Fu un momento memorabile, che forse tornerà con i Mondiali di calcio: un’occasione per insegnare alle giovani generazioni l’inutilità delle separazione, termine espresso dalla lingua afrikaans con “apartheid” appunto.
Lasciare un’ispirazione d’integrazione e di unione per il futuro era anche l’intento del convegno di sabato scorso, organizzato a Sezano dalla Comunità degli Stimmatinic on Redani (la rete della Diaspora africana nera in Italia), Pangea-Casa delle culture e Cisl: 1990-2010, 20 anni dalla fine dell’apartheid in Sudafrica. Inizio del cammino di libertà e dignità.
La giornata ha passato in rassegna i momenti cruciali di costruzione e di smantellamento della politica di separazione, adottata con la vittoria del Partito nazionalista del Sudafrica. Oggi s’inorridisce davanti a quel corpo di leggi che classificò i cittadini per gruppi razziali: la minoranza bianca, i neri africani (bantu) e i coloured (a discendenza mista). Eppure il divieto di relazione tra razze, l’interdizione ai neri di luoghi pubblici, tipologie di lavoro o scuole non è molto distante sulla linea temporale. La popolazione di colore, senza rappresentanza politica, ha vissuto relegata in zone determinate, fino ad un ventennio fa. La voce della coscienza civile e della rabbia fu appannaggio di letterati e poeti. C’erano poi gli oppositori dell’apartheid, riuniti sotto l’African national congress (Anc), fondato nel 1912 e capeggiato, a metà del Novecento, da Nelson Mandela. La risposta alla loro azione fu la persecuzione e l’istallazione di uno Stato di polizia. Nel 1960, una fitta serie di contestazioni culminò nel massacro di Sharpeville e nella messa al bando di tutte le organizzazioni politiche nere. Dimostrazioni, scontri e scioperi proseguirono per tutti gli anni Settanta. Seguì un decennio di riforme che
permise alle rappresentanze nere (il 75 per cento della popolazione) di organizzarsi e svolgere una limitata attività politica.
Ma il riconoscimento costituzionale – nel 1984 – di una rappresentanza solo di asiatici e di coloured (ma non nera), inasprì il clima di tensione, proiettando il pessimo esempio sudafricano sul piano internazionale. Nel 1990 il presidente Frederick de Klerk revocò, così, la messa al bando dell’Anc e liberò il suo leader, Mandela, in carcere da 25 anni. Con quest’ultimo, nel 1993 sottoscrisse un accordo sulle modalità della transizione del Sudafrica alla democrazia. Alle prime libere elezioni del 1994, Mandela uscì primo presidente nero nella storia del Sudafrica.
Si chiuse un capitolo di storia recentissima e lontanissima dalla percezione democratica del mondo. I suoi testimoni, oggi, sono vivi e giovani e possono raccontare quanto hanno visto, bianchi e neri, ciascuno dal suo punto di vista, «per lasciare – dice il consigliere dell’ambasciata sudafricana a Roma, Dancan Mobelo Sebefelo – una storia comune di tragedia, ma anche di trionfo».


«Io c’ero, io ci sono»
Testimonianze in bianco e nero

Franco Marangoni ha nome italiano, pelle bianchissima e capelli biondo-rossi. Ed è sudafricano. Nato 33 anni fa da genitori italiani immigrati negli anni Sessanta in Sudafrica, parla un italiano viziato dall’accento straniero. Infanzia, adolescenza e gioventù li ha trascorsi in Africa, spettatore bambino dell’apartheid.
«Mi sembra strano, quasi impossibile, di averlo vissuto. Ho frequentato una scuola multietnica, perché le private erano costose. Tuttavia l'educazione scolastica per i neri era di qualità inferiore.
La separazione era qualcosa che respiravi e capivi. Un giorno, tornando da scuola, a casa con i miei genitori vidi alcuni padri stimmatini. Con loro, l’autista nero. Guardai mia mamma e dissi: “C’è un uomo di colore nel salotto”. Era un’immagine inusuale per me, nonostante molte persone nere facessero parte della mia vita e vi fossi affezionato. Non ero abituato all’immagine di un uomo di colore seduto in salotto a bere caffè».
«Un’altra volta, a scuola, ci fu un allarme bomba. Ci fecero evacuare. Poi ritornammo, avevo paura di rientrare. La polizia tempo a ispezionare lo stabile e lasciò solo un poliziotto e un cane. Ricordo poi le segnaletiche nei bagni dei locali, sulle spiagge e negli alberghi; i luoghi per bianchi e la zona abitativa riservata alla popolazione nera: una baraccopoli con le postazioni militari vicine. Area degradata che contrastava con quella ricca dall’altra parte della strada. Ci portarono in gita lì, una volta. Io la vedevo sempre dalla finestra della fabbrica di mio padre, ma non ero mai stato dentro. Non c’erano marciapiedi, mentre da noi c’erano cemento e aiuole verdi. C’erano mucchi di immondizie e un bagno che serviva per tutto il vicinato. Un rubinetto ogni tot di case. Alla fine degli anni Ottanta sentivamo che le cose stavano cambiando. Durante il referendum del marzo 1992, per la popolazione bianca, restavamo attaccati alla televisione a scuola, durante le pause tra una lezione e l’altra, a guardare i risultati: il 68 per cento fu favorevole alle riforme per abbattere l’apartheid. Indimenticabili i Mondiali di rugby del 1995. Lo sport unì la gente, era come una favola e i festeggiamenti per la vittoria del Sudafrica furono stupendi.

Il consigliere degli affari multilaterali dell’ambasciata sudafricana a Roma, Dancan Mobelo Sebefelo, ha vissuto l’apartheid dall’altra parte della linea di confine, ma nelle sue parole c’è soprattutto speranza per il futuro. «La testimonianza di Franco Marangoni è importante. A chi oggi dice “io non avevo visto o capito”, rispondono i ricordi di un bambino che si accorse della situazione anomala dettata dall’apartheid. Chi voleva vedere la verità, la vedeva. Eravamo separati in maniera sistematica». «Quando Mandela fu rilasciato, eravamo pieni di entusiasmo giovanile. Sembrava un passo troppo lungo e noi giovani pensavamo di risolvere la questione con l’insurrezione armata, avevamo una visione piccola. Lui invece rispose col perdono ».
«L’apartheid era un sistema anomalo, barbaro. Ci si chiede perché non sia stato fatto nulla per osteggiarlo: perché era economico quanto politico. Per i benefici che produceva c’era l’interesse a farlo restare in piedi. Dopo il 1994 e il discorso ufficiale di Mandela, è stata istituita la democrazia ed è iniziato un modo nuovo di fare le cose. Abbiamo fatto progressi: una nuova Costituzione e una carta dei diritti hanno tutelato la libertà umana. Abbiamo costruito l’uguaglianza, realizzato abitazioni per gli svantaggiati, provveduto al lavoro, all’educazione e alla salute della popolazione. Nell’arco di quindici anni si è cercata l’integrazione e i giovani hanno un futuro brillante davanti. C’è stato un progresso profondo, anche se abbiamo sfide enormi davanti, a cominciare dall’economia. La nostra bandiera è simbolo di negoziazione, ha dei bellissimi colori e ci unisce tutti. Siamo orgogliosi di non essere solo un esempio, ma anche un successo politico e culturale, un’ispirazione per altre comunità».

fonte Verona Fedele del 28.03.2010