Pensando

C’era una volta l’apartheid…

‘Apartheid’ significa ‘sviluppo separato’: nel vecchio Sud Africa si trattava di dividere il Paese in aree (bianche e nere – e poi quelle per i meticci e per gli indiani), ‘sviluppando’ indipendentemente le diverse etnie.

In realtà, poi, le aree agricole più produttive e quelle minerarie erano zone bianche, mentre quelle industriali venivano sviluppate ‘in mezzo’, nelle zone bianche al confine con quelle nere, per consentire l’accesso sia dall’una che dall’altra parte.

Gli autobus erano divisi, le entrate nei negozi divise, le panchine nei parchi, i servizi igienici, le spiagge del mare, tutto.

Nel 1975 il presidente Verwoerd inaugura una nuova era con l’istituzione delle ‘homelands’ (= aree semi-indipendenti, distribuite secondo le etnie: Batswana – Bapedi – Basotho – Zulu – Xhosa – Ndebele – Venda): ogni etnia aveva il suo ‘posto’ e la cartina del Sud Africa divenne una specie di ‘collage’ in cui c’erano tante macchie corrispondenti a queste isole. All’occhio del cittadino comune si presentava come una schiena di leopardo: un fondo biancastro con tante macchie nere irregolari. Si decise di dare a queste ‘homelands’ un nome, un presidente, un governo, un parlamento, una bandiera… per farne degli ‘stati satelliti’… il problema fu che nessun Stato straniero mai riconobbe ufficialmente le ‘homelands’. La realtà era che questi presidenti e governi non erano che la ‘longa manus’ del governo centrale di Pretoria.

Le conseguenze pratiche del sistema erano visibili: stipendi diversificati per bianchi e per neri (lo stesso lavoro era pagato in maniera diversa secondo il colore della pelle), strutture sociali (ospedali, cliniche, amministrazione pubblica, ecc.) differenti, modo di pianificare il territorio completamente diverso. Allora succedeva che partivi dalla zona bianca e ti sembrava di essere in Svizzera: villette con giardino e piscina… 20-30-40 km più in là: vere e proprie bidonville: il primo mondo e il terzo mondo a pochi chilometri di distanza. Brits ne era l’esempio più visibile: una cittadina rurale con tutte le comodità e le fontane artistiche – a due chilometri molte baracche di lamiera per qualche migliaio di persone, senza acqua (se non per un certo numero di rubinetti sparsi qua e là nella ‘location’), senza fognature (si usavano secchi che venivano ritirati durante la notte), senza luce. A Legonyane, in zona nera, a 40 chilometri circa da Brits, c’era un solo pozzo per tremila persone e la gente andava a scavare per trovare l’acqua nel letto del torrente secco che scorreva solo durante la stagione delle piogge.

Per mantenere tutto questo sistema era stata sviluppata una propaganda spietata per giustificarlo (anche a livello religioso!), con un servizio di sicurezza tra i più efficienti del mondo e un’educazione separata, in cui nelle scuole dei ‘neri’ si insegnava poca storia e poca geografia per evitare che qualcuno guardasse oltre… (si chiamava ‘Bantu Education System’).

L’apartheid era un fenomeno complesso, che è difficile spiegare in poche parole. L’apartheid si respirava… diventava un modo di pensare ‘in bianco e nero’ che ti chiudeva in te stesso, sia che tu fossi bianco, sia che tu fossi nero.

Anche il parlamento era diviso e c’erano tre camere: per i bianchi, per i meticci e per gli indiani residenti nel Paese. Nessuna rappresentanza politica nazionale per gli allora (se ricordo bene) 25 milioni di africani che avevano rappresentanti solo a livello locale nelle ‘homelands’.

… che per fortuna finì.

Quando nel 1987 arrivai in Sud Africa, la situazione era ormai ‘alla frutta’ – non sarebbe andata avanti per molto. C’era molta paurafra la gente di una rivoluzione e di una guerra civile, come era successo nella Rhodesia che da poco era diventata Zimbabwe. Gli attacchi ‘terroristici’ (come venivano definiti dal governo centrale) si stavano moltiplicando, la crisi economica dovuta alle sanzioni e all’embargo si faceva sentire a tutti i livelli. L’autocrazia sudafricana non poteva più sopravvivere in un mondo che stava diventando globalizzato. Nel 1989 l’allora ministro degli interni De Klerk insieme con quello degli esteri, Pik Botha, deposero il Presidente PW Botha che aveva avuto una paresi e indissero le elezioni e ai bianchi si chiese se incominciare un processo di cambiamento e di democratizzazione del Sud Africa. La maggioranza disse sì al cambiamento. Il primo frutto fu la liberazione di Mandela (11 febbraio 1990) e il riconoscimento del suo partito, l’ANC, e di altri partiti che fino ad allora erano stati banditi come associazioni terroristiche. Più tardi con il referendum tra i bianchi del marzo ’92, il cammino incominciato da De Klerk e Mandela venne ufficialmente accettato. Si incominciò poi con l’assemblea costituzionale che doveva ri-scrivere la Costituzione.

La Commissione Verità e Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission - TRC)

Il presidente De Klerk, nel passaggio dal precedente sistema al nuovo Sud Africa, chiese che fosse emanata un’amnistia per tutti i funzionari del vecchio sistema che si erano macchiati di crimini contro l’umanità in nome della vecchia ideologia. La società civile rispose di no. C’era allora il pericolo che si ripetesse ciò che avvenne dopo il 1945 in Germania con i criminali nazisti che si sparsero in tutto il mondo. Si voleva risolvere il problema all’interno del Paese. Dal dibattito che ne seguì emerse la volontà di istituire una commissione formata da membri rappresentativi della legge e della chiesa che aiutasse nella riconciliazione nazionale. Si comprese che il semplice processo legale di giustizia non bastava: occorreva un rinnovamento spirituale e morale profondo. Occorreva, prima di tutto, stabilire la verità dei fatti e iniziare un processo di guarigione interiore della Nazione. Si decise che la commissione fosse formata da 17 membri e presieduta dal premio nobel per la pace, l’arcivescovo anglicano di Città del Capo, Desmond Tutu. Le vittime e i sopravvissuti erano invitati a raccontare le loro storie. I criminali a chiedere l’amnistia in un processo di auto-accusa.

Fu evidentemente un passo oltre la giustizia retributiva: le ‘pene’ inflitte non furono mai ‘giuste’ in questo senso: i criminali se la cavarono con una ‘brutta figura’ pubblica e le vittime ebbero la soddisfazione di testimoniare le loro sofferenze. Risarcimenti e restituzioni furono fatte solo a coloro che soffrivano economicamente a causa dei crimini del vecchio sistema, i più poveri, e questo creò dei problemi di popolarità della Commissione. Ma i Commissari si chiesero: ‘quanto costa la vita di un uomo? Si può fare un tariffario?’ Quanto potevano costare – per esempio – le mani di quel ministro anglicano che ricevette una lettera bomba dal servizio di sicurezza dell’allora ministero degli interni e le perse per sempre?

22,500 casi circa furono aperti e conclusi e questo, inaspettatamente (fu un vero miracolo!) portò ad una profonda guarigione interiore sia delle vittime che dei perpetratori dei crimini. Si capì che il male era stato fatto ed era irreversibile ed era impagabile. Bisognava andare oltre, voltare pagina, iniziare un nuovo capitolo. Non bisognava dimenticare, ma far sì che la memoria non fosse più fonte di vendetta: e questa è la vera riconciliazione.

La TRC può essere considerata, nella storia dell’umanità, come una grande storia di giustizia ed un esempio per ricostruire una Nazione dal di dentro. I filosofi del diritto, i giuristi e gli storici la giudicheranno dal loro punto di vista. Dalla parte della gente, la TRC ha svolto un ruolo fondamentale nella riconciliazione nazionale e nel riaprire il futuro del Sud Africa, una nazione ‘arcobaleno’ formata da molte grandi etnie.

L’esempio della TRC è stato poi esportato in Rwanda, Burundi, Costa d’Avorio e Israele con svariati risultati. Ma la TRC a mio parere costituisce una chiaro esempio

di attuazione del famoso detto evangelico: ‘la verità vi farà liberi’.

La giustizia politica in Sud Africa è stata raggiunta nel 1994 con le prime elezioni democratiche e con la presidenza Mandela. La giustizia economica e quella sociale sono ancora in difficile costruzione. Ma il passaggio dal vecchio al nuovo Sud Africa è un grande modello di integrazione per l’intera umanità.

di p. Stefano Senaldi, stimmatino, ha vissuto in Sudafrica 17 anni