Musulmane in Italia, non dimenticate le vostre origini
di Karima Moual
Io come moltissime ragazze musulmane di seconda generazione nate o cresciute in Italia, siamo qui, non per una libera scelta, ma per un destino che i nostri genitori hanno scelto anche al posto nostro, per migliorare la loro vita e il nostro futuro. Lasciando il loro paese di origine, i loro affetti e le loro tradizioni, per dare inizio ad un nuovo cammino, in un paese lontano e diverso, un paese occidentale. Questo era il loro desiderio e da quando sono arrivata in Italia all'età di nove anni quello è diventato anche il mio desiderio: un'esperienza del tutto nuova, una vita migliore, lo studio, il divertimento e i nuovi amici italiani con cui imparare nuovi giochi e una nuova lingua. Fin qui tutto ok. Siamo bambine e l'infanzia è intoccabile.
Le bambine però crescono. E per la prima volta il genitore si trova di fronte ad una nuova creatura, così diversa da quella che si prospettava, diversa dalla madre e dalla moglie, così lontana dalle tradizioni e dalla cultura di origine, diversa da lui. Un grande dispiacere per lui che ha cercato in tutti i modi di sottolineare i valori della famiglia, la sua unità e le differenze culturali e religiose per non dimenticare le origini e portarle avanti con fierezza. Lui adesso aveva perso qualcosa, aveva perso se stesso e la colpa era della nuova creatura. Quelle differenze culturali e religiose io potevo benissimo portarle avanti perché facevano parte di me, ma inconsciamente acquisivo giorno per giorno anche quelle nuove, quelle italiane, quelle che ormai facevano parte di me come musulmana e italiana, quelle che ai suoi occhi mi rendevano quasi un'estranea, nella quale non si riconosceva. «Raki daimen muslima u-maghribiyya (sei sempre musulmana e marocchina), queste sono le tue origini, non lo devi dimenticare, ed è per questo che non puoi frequentare i ragazzi italiani che non sono musulmani». È questa la frase che la maggior parte delle ragazze musulmane marocchine si sentono dire, come fosse un ammonimento per metterle in guardia nell'età dell'adolescenza sulle loro scelte future. Frase confessata da molte amiche, con il sorriso amaro di chi di fronte non ha alternative.
È una frase che si sa, si cocosce bene. È una frase che probabilmente anche il padre di Sanaa deve aver usato per convincerla a rinunciare alla sua scelta di frequentare un ragazzo più grande, non musulmano ma italiano, e cattolico. Ma il ragazzo italiano in realtà non è il vero problema, è solo il fine. Più in profondità c'è la malattia sociale di un conflitto generazionale intra-etnico che trova il suo sfogo più violento sulle ragazze, più che sui ragazzi, proprio perché queste sono coloro che portano tradizionalmente la bandiera della propria cultura attraverso simboli e usanze a volte misogine.
E allora c'è chi, come Hina e Sanaa, ma anche come tante altre ragazze musulmane, cresciute o nate in Italia pensano di essere libere, emancipate, protette, in grado di fare le loro scelte alla luce del sole, magari portando una minigonna senza nascondersi, o frequentando il proprio ragazzo italiano, anche se ci si trova ad abitare in un paese piccolo dove c'è la tua famiglia, la comunità di origine, dove la tua comunità ti può giudicare e tuo padre può sentirsi disonorato, ma coraggiosamente affrontano a testa alta le loro scelte, anche pagandole con la propria vita.
Ma ci sono anche coloro che, più deboli, si nascondono, si sottomettono ad un destino già prescritto per il bene della famiglia e della comunità. Si accontentano, quindi, di sposare il cugino in Marocco o l'amico di famiglia, si fidano di ciò che la famiglia consiglia per il proprio bene perché il legame con la famiglia è quasi sacro per una donna araba e tradirlo può significare l'esilio. Questo mi ricorda la storia di Fatima, 33 anni, una ragazza bella ma timida, arrivata in Italia con il ricongiungimento famigliare all'età di 13 anni. Fatima non riuscì ad integrarsi pienamente con i compagni. Il posto lo trovò nella protezione della propria famiglia. Ma per tale forte legame la personalità di Fatima è stata totalmente annullata. La ragazza non è più riuscita a scegliere per se quello che realmente desiderava per paura di rimanere sola. E alla fine, seguendo il consiglio del padre, ha sposato un cugino in Marocco.
Due generazioni a confronto e in conflitto, è questo il problema che la comunità marocchina musulmana sta vivendo, a discapito del più debole, la donna. È una delle comunità più numerose, che si è insediata più in fretta del previsto, una comunità fatta di intere famiglie con figli nati o cresciuti oramai da anni in Italia. All'interno di questa comunità, tra amici e parenti si parla di questo conflitto, si cerca di affrontarlo, pur non riuscendo ancora ad accettare che le nuove generazioni sono anche italiane, vivono con italiani e pensano come gli italiani. È emblematico il racconto di una ragazzina di 14 anni che mi raccontò di aver affrontato suo padre sulla scelta del futuro fidanzato chiedendogli: papà come posso trovare un ragazzo musulmano marocchino se nella mia scuola non ce n'è nemmeno uno e nella nostra città per di più non ce n'è neanche uno che mi piaccia? Come posso innamorarmi se so già di chi per forza mi devo innamorare?
Questa è una domanda che deve far riflettere sul disagio con cui si trovano a convivere molte ragazze musulmane, che subiscono continuamente violenze psicologiche sulle loro scelte, solo perché si trovano a vivere in un paese occidentale che loro stesse non hanno scelto per se.
fonte: Il Sole 24 ore, 17 settembre 2009