Rassegna Stampa

Bauman: «Siamo già europei. E non lo sappiamo»
intervista a Zygmunt Bauman
di Lazzaro Pietragnoli

«L’Europa non è un tesoro che va scoperto, ma una statua che deve essere scolpita: qualcosa che va creato, un dramma dalla trama intricata, che sfida ogni possibilità di programmazione a priori. È come un treno che mentre corre dispone i binari davanti a sé. Continua ad andare, senza seguire un percorso prestabilito, ma adattando sempre la propria strada». Alla vigilia delle elezioni per il parlamento europeo, Zygmunt Bauman, uno dei maggiori sociologi viventi, riflette in una lunga conversazione con Europa sul presente dell’Unione e sulle grandi sfide che la attendono in futuro.


A ottantaquattro anni, spesi per metà nella nativa Polonia e per metà nell’adottiva Gran Bretgana, Bauman si considera un cittadino europeo: «Come altro potrei definirmi? L’identità europea è inclusiva perché permette di accomodare due o più punti di riferimento di identità nazionali ma al tempo stesso annulla le differenze tra loro. Quando l’università di Praga mi ha chiesto quale inno nazionale volevo suonato alla cerimonia di consegna della laurea honoris causa, ho chiesto l’inno europeo: la Polonia mi ha esiliato, togliendomi la cittadinanza; la Gran Bretagna mi ha accolto, ma sebbene naturalizzato inglese continuo a sentirmi uno straniero. “Ogni uomo diventa fratello”, dicono le parole di quella struggente canzone e l’idea di fratellanza è certo un perfetto emblema della identità europea: uniti ma indipendenti, distinti ma inseparabili».

Quali sono stati a suo parere fin qua i più grandi risultati dell’Unione europea?

L’Unione europea ha curato le antiche ferite lasciate da secoli di odi tribali e antagonismi nazionali: si tratta di un processo non finito, che probabilmente non ha ancora raggiunto il punto di non ritorno. Il rischio di un’inversione è sempre in agguato, ma io voglio essere ottimista e dire che soprattutto negli ultimi mesi abbiamo visto questo processo consolidarsi ulteriormente.Qualche pessimista potrà sottolineare che la comunità economica non ha superato il test della crisi finanziaria internazionale e che di fronte al collasso del sistema del credito gli stati nazionali europei si sono richiusi in vecchie logiche nazionali, adottando di nuovo l’apparentemente abbandonata strategia di giocare ognuno per sé. Ma bisogna anche riconoscere che l’idea di pace e convivenza europea, l’idea di vivere insieme nella differenza, ha talmente preso forza che, pur ... paragonando la situazione attuale a quella della “Grande Crisi”, anche le più nefaste delle profezie si sono ben guardate dall’ipotizzare che questa situazione possa degenerare in una corsa agli armamenti, in cinque anni di guerra mondiale, in una nuova concentrazione di atrocità come quella che abbiamo visto meno di settant’anni fa. Abbiamo forse bisogno di un’ulteriore dimostrazione dei successi europei?


Quali sfide ha davanti a sé l’Europa?

L’Europa ha ora il compito di portare a termine questo processo: come un tempo siamo riusciti a trasformare comunità locali disperse e autoreferenziali in stati nazionali, così ora bisogna trasformare stati nazionali dispersi e autoreferenziali in una immaginaria comunità più ampia.Guardandomi attorno noto che tutto questo sta già succedendo, forse non a livello istituzionale, ma nella vita quotidiana di milioni di persone, che sempre più vedono l’Europa come il loro guscio e difficilmente notano i confini nazionali durante le loro peregrinazioni. Dopo l’ingresso della Polonia nell’Ue, circa due milioni di giovani polacchi si sono trasferiti in Gran Bretagna per trovare un lavoro migliore o nuove possibilità di studio e di vita. Per loro cambiare stata è un’esperienza non dissimile dal trasferirsi in un’altra città polacca: anzi certe volte un volo internazionale è più agevole di un lungo viaggio in treno. Questi giovani si sentono già cittadini dell’Unione europea, piuttosto che emigranti, espatriati o esiliati.

Però al tempo stesso crescono fenomeni di intolleranza, di discriminazione, di chiusura.

La crescita della demagogia euroscettica è a mio avviso solo apparente: le manifestazioni di massa contro gli stranieri accusati di «rubare i nostri posti di lavoro» sono certamente fenomeni più visibili del continuo supporto verso la comune casa europea che si esprime invece in modo pacato, ma al tempo stesso anche più convinto, dato che molti dei vociferanti critici dell’Europa cercano solo di usare a loro vantaggio elettorale la crescita di insicurezza esistenziale che la globalizzazione porta con sé.


Come si può contrastare questa ondata di estremismo, che rischia di essere la vera novità delle prossime elezioni?

Poiché la flessibilità del mercato del lavoro e la fragilità nei rapporti sociali, che sono difficilmente visibili, avvengono in contemporanea con l’arrivo di ondate di immigrati, che invece sono fisicamente presenti, tendiamo ad individuare nell’effetto la causa delle nostre insicurezze e pensiamo che eliminando quell’effetto avremo anche eliminato la causa. Emblematica in tal senso mi pare l’ideologia della Lega in Italia: l’insicurezza per loro non è il prodotto di politiche neo-liberiste, ma nasce semplicemente dalla necessità per i lombardi di dividere le loro ricchezze con calabresi e siciliani, o per tutti questi di condividerle con gli stranieri.

La globalizzazione può essere affrontata con due logiche, che sembrano incompatibili e invece sono necessariamente complementari: la logica della chiusura locale e quella della responsabilità globale. Contrariamente a quanto queste forze politiche dicono, per mero consenso elettorale, l’Unione europea non è una minaccia all’autonomia degli stati nazionali, non erode la sovranità nazionale limitando il potere dei governi nel controllo dell’economia. Al contrario, queste dinamiche di erosione sono portate avanti da forze globali, contro cui solo istituzioni sovranazionali come l’Unione europea possono essere di contrasto: solo ricostruendo a livello più ampio quella rete istituzionale che non controlla più l’economia nazionale, è possibile salvaguardare i confini della sovranità nazionale.

La seconda logica invece ci dice che non è possibile difendere la libertà e la democrazia a livello di stato nazionale, per quanto bene armato: i nostri destini si decidono a livello globale e solo su questo piano possono essere difesi i nostri valori.


Come può l’Europa attrezzarsi per fare fronte a queste sfide?

Sono abbastanza anziano da ricordare che i padri fondatori dell’Europa unita, Schuman, Monet, Adenauer, De Gasperi, non si sono posti queste domande: hanno costruito l’Europa dalla porta della cucina, non dall’ingresso monumentale, coordinando e integrando la produzione di carbone e acciaio e senza porsi il problema della cultura europea, dell’identità europea e neppure della comunità europea. Hanno creato un fatto compiuto, confidando che esso, una volta sistemato, avrebbe poi creato la sua stessa logica giustificante. In questo modo pragmatico e concreto sono riusciti dove tutti gli sforzi di unificazione attraverso la fede o la forza erano miseramente falliti nei secoli precedenti.

Ora siamo di fronte ad un nuovo dilemma: c’è una divergenza insanabile tra il potere e la politica. A livello globale c’è potere senza controllo politico, mentre a livello locale c’è politica senza possibilità di incidere. I poteri degli stati nazionali non sono più sufficienti nel mondo globalizzato. Siamo quindi in una situazione analoga a quella di cinquant’anni fa: non abbiamo un progetto, un ideale, un programma. Siamo come alpinisti sul costone di una montagna che non è mai stato percorso in precedenza e non sappiamo che cosa ci aspetti dall’altro lato: siamo spinti ad andare avanti non dal desiderio di raggiungere qualcosa che non conosciamo, che non possiamo neppure immaginare, ma dallo sconforto della situazione in cui ci troviamo.Tornare indietro non è più possibile, fermarsi a riposare non è consentito. Bisogna andare avanti, costruendo nella scalata i concetti per definire la nuova realtà. Solo così possiamo arrivare alla forcella e vedere finalmente che cosa ci aspetta dall’altra parte.



Fonte: “l’Europa” del 3 giugno 2009