Pensando

Primo straniero è il cristiano


di Enzo Bianchi




C’è qualcosa di intrigante nel titolo della Fiera del Libro di quest’anno, un particolare apparentemente secondario che in realtà obbliga a soffermarsi con intensità sul soggetto scelto e sui termini che lo definiscono. È quella semplice virgola, quel piccolo segno che unisce e separa, che impone una sosta alla voce e al pensiero: non un punto, né una congiunzione, nemmeno una preposizione, né un aggettivo – tutti elementi che potrebbero orientare in un senso o nell’altro il nesso tra i due termini e, ancor di più, tra le due realtà esistenziali. Credo che molto della riflessione su questo tema dipenda da come interpretiamo quella virgola, da quali espressioni pensiamo le siano soggiacenti.

La semplice giustapposizione dei due termini – uno al singolare, l’altro al plurale – può infatti aprirsi e divenire un ponte gettato tra due mondi, oppure un muro che li separa o ancora una strada che li mette in comunicazione. Vi si può leggere anche l’opportunità di un intreccio fecondo tra l’uno e l’altro, l’insopprimibile connessione che li abita. Sì, perché “io” esisto in quanto essere-in-relazione: con quanti mi hanno preceduto, con chi è o è stato accanto a me, il mio “prossimo”, con coloro che ho avuto o avrò modo di incontrare nella mia vita, con il pensiero, la vita e le azioni di persone che non ho mai conosciuto personalmente e perfino con chi non conoscerò mai ma che contribuisce con la sua esistenza, le sue gioie e le sue sofferenze a quel mirabile corpo collettivo che è l’umanità.

È una consapevolezza, quella dell’intima connessione tra ciascuno di noi e gli altri, che va ridestata con lucidità in questa nostra epoca in cui si può ipotizzare la “morte del prossimo”, la scomparsa di colui che, letteralmente, è “più vicino”. Se infatti veniamo quotidianamente sollecitati a una generica solidarietà con chi è lontano, siamo nel contempo spinti a non vedere chi ci è accanto e attende, prima ancora che un gesto di comunione, il semplice riconoscimento della propria esistenza. Comunichiamo a distanza, interagiamo in “tempo reale”, ci sentiamo connessi con una rete globale, ma distogliamo lo sguardo e il cuore da “l’altro accanto a noi”, nella paura che il diverso cessi di restarci estraneo e inizi a inquietare la falsa sicurezza che regna tra i “simili”.

Michel de Certeau, teologo e antropologo, instancabile viaggiatore attraverso paesi, culture e persone diverse, definiva lo storico come colui che ha “il gusto dell’altro” e il cristiano come chi cerca di “far posto all’altro”: per lui l’altro, lo straniero è al contempo “l’irriducibile e colui senza il quale vivere non è più vivere”. In questo senso possiamo declinare il rapporto “io, gli altri” come una relazione dinamica in cui entra in gioco anche la dimensione temporale: oggi io sono quello che altri sono stati prima di me e, a loro volta, gli altri possono diventare quello che io sono o ero a un certo punto della mia vicenda umana. È il tema della memoria che tanto si incrocia con quello dell’alterità. Non a caso già all’interno della bibbia ritroviamo sovente l’invito a ricordare collegato a un comandamento, in particolare quando questo riguarda l’atteggiamento da avere verso gli stranieri, coloro che non fanno parte della comunità identitaria: “Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Es 23,9).

Sì, nella dialettica tra io e gli altri si gioca il difficile equilibrio, mai raggiunto pienamente, tra identità e convivenza. In che modo non solo conservare ma anzitutto riconoscere, coltivare, alimentare la propria identità senza collocarla in rapporto dinamico con l’essere accanto, prossimi al diverso? E come convivere in un confronto civile tra persone, etnie, culture diverse senza aver chiara consapevolezza della propria identità e di come questa si sia venuta formando proprio attraverso successive, ininterrotte mescolanze con alterità che da lontane si fanno vicine, da estranee divengono familiari?

Un profondo conoscitore di tante alterità, grazie alle quali ha plasmato una propria identità irripetibile, Ryszard Kapuścińky, aveva sapientemente colto sul terreno di un contatto e una conoscenza quotidiana che “l’altro siamo noi” e in modo molto concreto aveva sperimentato la profonda verità di quanto affermato da Edmond Jabès: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero ... La distanza che ci separa dallo straniero è quella stessa che ci separa da noi”. È la stessa distanza – enorme oppure ridottissima, a seconda di come la affrontiamo – significata da quella “virgola”, da un piccolo segno di interpunzione che poniamo tra noi e gli altri: che sia ponte o baratro dipende solo da noi.

fonte: da "La Stampa" del 9 maggio 2009