Rassegna Stampa

La via etica allo shopping


di Maria Novella Deluca




Non più compulsivi ma selettivi. Attenti nella scelta, nomadi nella ricerca, abilissimi nell' equazione miglior qualità minor prezzo, surfisti delle offerte, decodificatori di etichette e codici, bio, etici e responsabili. La crisi incalza e la vita s' adegua, i consumi prima crollano ma poi si plasmano al tempo, e tra gli scaffali dell' invenduto nasce una nuova categoria di "utenti intelligenti", come li definisce il sociologo Giampaolo Fabris, più sobri, più austeri forse, ma non per questo "meno felici".


Professor Fabris, chi sono i nuovi consumatori? Siamo di fronte a un mutamento "antropologico" dello shopping?

«Sì, il mutamento epocale è in atto e la crisi economica non ha fatto altro che accelerarne la corsa. Più che di nuova sobrietà però parlerei di una riscoperta della responsabilità. Perché pur in una contrazione di costi e di spese il consumo mantiene intatte le sue caratteristiche ludiche e di appagamento, ciò che cambia sono gli universi di riferimento».


Faccia un esempio.

«L' etica. I consumatori premiano le aziende che a loro parere si comportano bene, nel senso che non sfruttano i lavoratori, non inquinano, riciclano, non fanno sperimentazioni sugli animali. I soldi sono pochi e devono essere spesi bene, benissimo. Un dato che fa riflettere è che in piena recessione di acquisti, le vendite dei prodotti del mondo green, cioè verde, ecologico, rinnovabile, sono aumentate dell' 8 per cento. Tanto che alcune catene della grande distribuzione hanno cominciato a far apparire sui loro scontrini la quantità di anidride carbonica prodotta dai diversi marchi».


Lei sostiene però che la tendenza a una maggiore sobrietà, anzi responsabilità, fosse già in atto prima della crisi. Non è dunque soltanto la necessità a renderci più impermeabili al consumo?

«I farmers market,i gruppi di acquisto solidale esistono da anni. Ma erano piccoli mondi alternativi alla grande distribuzione. Oggi sono realtà economiche concrete, simboli appunto di quella nuova antropologia del consumo, dove si preferisce una mela italiana magari meno bella, a una mela neozelandese, rossa e perfetta, ma nel cui costo sono compresi litri e litri di carburante scaricati nell' aria durante il trasporto fino ai nostri scaffali».


In uno dei suoi ultimi libri lei trasforma la parola "marketing" in "societing", dove i marchi e i prodotti si dematerializzano per diventare segni e simboli...

«Certo perché il consumo è anche agire umano e sociale. E dunque ogni mutamento in questo campo crea cambiamenti nei modi di vivere, di pensare, di stare insieme».

Infatti lei afferma che questa nuova sobrietà, questo non poter più comprare liberamente (o compulsivamente) ci ha resi, paradossalmente, più felici.

«È la tesi sorprendente di una ricerca che avevo effettuato nel Natale scorso. Pur non potendo più spendere per i regali il budget dell' anno prima, le persone rispondevano che questo sacrificio non le aveva rese più tristi ma anzi più felici e selettive. Le stesse parole di chi supera una fase bulimica della propria vita».


Lo shopping è anche una modalità del tempo libero. Soprattutto per i giovani, che passano i pomeriggi nei centri commerciali. E adesso?

«Non lo nego, questa è la sfida. Sostituire i beni di consumo con i beni di relazione. Bisognerà ripensare il tempo libero. Passare cioè dallo spendere al parlare, dal guardare le vetrine al guardarsi negli occhi. Non è facile, ma è una grande occasione».

fonte: da "la Repubblica" del 28 aprile 2009