Introduzione alla Veglia Pasquale
di Cristina Frescura
Nell'esperienza di ciascuno di noi vi sono situazioni in cui le parole si rivelano inadeguate, per difetto o per eccesso: risultano di troppo, o invece insufficienti. Sono di troppo a fronte di un dolore inesprimibile e inconsolabile, non bastano per dire una gioia profonda e grande. I segni, allora, i gesti ci aiutano a dire ciò che muore nella gola o urge nel cuore. Come in questa notte, in cui arriviamo portando in noi lo scandalo di un Dio che lava i piedi e muore in croce, la delusione di scoprire tra noi, dentro di noi la possibilità del tradimento e dell'abbandono, l'angoscia che la morte abbia l'ultima parola, la paura di fidarci di una misteriosa promessa, fatta “secondo le Scritture”.
Il lungo cammino della Quaresima, i giorni intensi del Triduo ci hanno portato qui, insieme, alle soglie di un nuovo giorno; abbiamo risposto all'invito: “Venite, vegliate”, condividiamo – ognuno a suo modo – un richiamo e un'attesa. Al nostro stare insieme di questa notte la tradizione cristiana offre dei segni, dei gesti e anche delle parole – un linguaggio comune, che ci fa comunità attraverso i tempi e gli spazi. Nella veglia pasquale la comunità cristiana riconosce la sua origine e ripercorre la sua storia, ritrovando allo stesso tempo l'orientamento per il suo cammino. Ma prima di riprendere la strada, c'è questo invito a sostare nella notte: la notte che è essa stesso segno, il primo dei segni che compongono questa liturgia, questo linguaggio comune.
Notte in cui è più facile l'ascolto, perché la paura, lo smarrimento, il dubbio ci fanno aguzzare l'orecchio e tendere il cuore verso ogni voce, ogni presenza, perché nel buio affidiamo al barlume della speranza che viene a cercarci tutta la nostra fiducia. Notte in cui il tempo si dilata, la memoria del passato ci aiuta a non smarrire il senso di ciò che siamo, ma l'urgenza di futuro ci fa scrutare con desiderio i segni del nuovo giorno che arriva. Notte in cui anche le solitudini più profonde intuiscono la fraternità discreta che lega coloro che vegliano.
Questa notte che simbolicamente riassume in sé tutte le notti che scandiscono la storia della salvezza comincia – in quell'unità di spazio e di tempo resa possibile dalla liturgia – nel momento in cui a Gerusalemme Giuda abbandona la stanza al piano superiore dove la comunità è riunita con Gesù: il discepolo prende il boccone che il Maestro intinge per lui e, scrive Giovanni, “subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). Comincia la lotta mortale tra le tenebre e la luce, il mondo sembra precipitare all'indietro nel caos informe da cui la parola di Dio l'aveva tratto. Nel buio che avanza la comunità si smarrisce, perde l'orientamento, inciampa: “Voi tutti vi scandalizzerete, inciamperete a causa di me, in questa notte” (Mt 26,31), dice Gesù uscendo anche lui dalla sala della cena verso il monte degli ulivi. Ma dall'abissale distanza dell'abbandono e del rinnegamento, nell'ora dell'”impero delle tenebre” (Lc 22,53) il Signore si volta a guardare Pietro seduto accanto a un fuoco nel cortile del sommo sacerdote e con uno sguardo – racconta l'evangelista Luca (cf. Lc 22,61)– lo richiama alla verità della sua sequela, impastata di slanci d'amore e di umanissima fragilità, e pare dirgli ancora una volta e per sempre: “Va' dietro a me” (Mt 17,23).
Un fuoco, dunque. Gesù aveva detto: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra” (Lc 12,49); ma il fuoco acceso nel cortile dove spettatori curiosi assistono agli eventi della Passione non è che un riparo illusorio e provvisorio contro l'oscurità e il freddo, intorno a cui si giocano complicità e strategie di sopravvivenza, in cui ci si schiera tra “noi” e “loro”. Lo sguardo di Gesù che cerca gli occhi di Pietro ravviva la consapevolezza di un altro fuoco, il fuoco del roveto che “arde e non consuma” (cf. Es 3,2), la cui luce e il cui calore neppure le tenebre della morte e il gelo degli inferi possono spegnere. Il Cantico dei Cantici grida: “Forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, fiamma di Adonai!” (CdC 8,6). E allora il sepolcro dell'Amato diventa un braciere, in cui l'amore benché umiliato, rinnegato, soffocato continua ad ardere, nel silenzio del sabato santo; un braciere che le donne custodiscono con fedeltà a sua volta silenziosa, presso il quale Maria Maddalena non può impedirsi di tornare perché colei cui molto è stato perdonato poiché ha molto amato sa di non poter trovare altrove luce ,calore, vita.
E quando il Padre nella nuova creazione del mattino di Pasqua soffia ancora quello Spirito che l'obbedienza del Figlio aveva riconsegnato nelle sue mani, allora il fuoco può divampare di nuovo: la parola delle Scritture e i gesti della fraternità, il pane spezzato e il vino versato, possono di nuovo infiammare i cuori del discepoli, farli convertire dalla loro fuga verso Emmaus e ritornare a Gerusalemme, per ritrovare quell'unità della comunità che sola consente allo Spirito l'autentica Pentecoste in cui il fuoco può, senza venire meno, diventare fiamma in tutti e ciascuno.
Anche noi questa notte siamo stati chiamati a radunarci attorno a un fuoco: e affinché possiamo riconoscere in questo segno la vera Luce che splende nel mondo, che le tenebre non hanno vinto e che è fiamma da lasciare ardere nei nostri cuori, anche per noi, ora, Gesù spezza il pane e spiega le Scritture. Gesù Cristo, infatti, è il vivente “ieri, oggi e sempre”, perché dalla notte di Pasqua è nato un tempo nuovo, in cui tutto è “già e non ancora”. Tutta la storia della salvezza, che le letture di questa veglia ci raccontano, trova in Gesù Cristo un compimento che non è conclusione, ma pienezza di senso; tutta la vicenda della comunità cristiana – passata e futura - è resa presente nella celebrazione dell'eucaristia; tutti i nostri personali cammini di sequela, immersi in Cristo con il battesimo di cui stanotte facciamo memoria, sono “già e non ancora”, pienamente benché imperfettamente, presenza del Regno di Dio in mezzo all'umanità e a servizio di essa.