Il ring di Ginevra
di Gian Enrico Rusconi
E’ in gioco l’etica, è sbagliato disertare», aveva affermato il capo della delegazione vaticana alla Conferenza dell’Onu sul razzismo, disapprovando le nazioni assenti. È stato smentito dalle parole (per altro prevedibili) del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che della questione etica del razzismo ha fatto un uso eminentemente politico unilaterale. Lo stesso segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon è dovuto intervenire per censurarlo.
Il fatto è che il razzismo è diventato l’indicatore più potente e comodo per stigmatizzare ciò che si considera il male, il nemico. Anzi il proprio nemico. Ma in questo modo la definizione di che cosa sia il razzismo, la sua imputazione, la lotta efficace contro di esso sono diventati strumenti politici diretti. Un classico esempio di politicizzazione di principi che dovrebbero invece ispirare una politica di intesa e azione comune.
È in questa situazione che si è cacciata la Conferenza di Ginevra, dopo la cattiva prova della volta precedente a Durban nel 2001. Non è più il «luogo del dibattito etico», ma il posto dove si esibiscono i muscoli della nuova ideologia anti-occidentale, prendendo come pretesto il caso di Israele.
Al centro del contrasto infatti c’è l’idea del mondo islamico di considerare il «sionismo come ideologia razzista» e quindi di accusare lo Stato di Israele di essere razzista, di praticare una politica razzista. Corollario di questa accusa è il disconoscimento del suo diritto di esistere come Stato. Questa posizione è sostenuta con particolare aggressività dal rappresentante dello Stato teocratico iraniano, che considera l’Olocausto una «invenzione sionista». Per quanto sappiamo, i rappresentati di molte nazioni, non soltanto occidentali, hanno cercato in tutti i modi, nella fase preparatoria della Conferenza, di far correggere questo atteggiamento. Ma nonostante qualche aggiustamento non è stato raggiunto l’obiettivo.
È chiaro che non si tratta di difendere per principio la politica israeliana o di risparmiarle critiche, anche molto severe, soprattutto in merito a recenti decisioni nella questione palestinese. Israele sta commettendo molti errori. Ma soltanto chi è ossessivamente vittima di un’ottica etnicista (razzista) può imputarli ad una presupposto razzista. Il razzismo è la negazione della pari dignità umana, culturale, politica ad un gruppo sociale o etnico «altro», sino a prevederne o addirittura ad augurarne il virtuale annientamento. Ma non è esattamente questo l’atteggiamento di chi accusa oggi Israele di essere razzista?
Per uscire dall’imbarazzo e prendere una posizione che si vuole super partes, si va ripetendo che, se è deplorevole l’antisemitismo, non lo è da meno l’islamofobia. Anzi si insinua che è la montante islamofobia (legata al sospetto di terrorismo), non solo in Israele ma nell’Occidente intero, ad attizzare l’antisemitismo.
Segnali di una crescente insofferenza anti-islamica sono evidenti anche in Italia. Nel nostro Paese per superficialità e ricattabilità del ceto politico si tollerano atteggiamenti indecenti e irresponsabili persino presso rappresentanti delle forze partitiche. Parlando di islamofobia tuttavia occorre distinguere tra un generico atteggiamento xenofobo, che con il passare degli anni si è diffuso e rafforzato, cambiando obiettivo, investendo di volta in volta albanesi, romeni o zingari, e la specifica diffidenza verso il mondo musulmano. Se il primo tipo di immigrati produce un senso di insicurezza individuale, legato ad aspettative e timori di criminalità, l’immigrazione musulmana dà luogo ad un altro insieme di sentimenti. La vivacità dei piccoli mercati rionali, la presenza riservata delle donne velate con i loro bambini sempre più numerosi nelle scuole materne, e gli adulti maschi che fanno una cosa per noi inconsueta: pregano con gesti pubblici altamente espressivi eppure semplici. Tutto questo genera un oscuro senso di timore reverenziale. Si percepisce confusamente una sfida culturale, cui si reagisce maldestramente immaginando «radici cristiane», di cui in realtà non si sa più nulla. Ma l’effetto più devastante lo fa il sospetto - ingiustificato - di terrorismo.
Diventa così difficile stabilire una vera comunicazione con gli islamici a livello quotidiano. La gente normale è a corto di argomenti. L’invadente chiacchierona televisione nostrana non sa che cosa dire. Ripete banalità «politicamente corrette», ma non trasmette informazioni serie. Gli intellettuali sono ancora distratti, ma qualcuno - a corto di argomenti - parla di islamizzazione dell’Europa. Islamofobia? Da noi, non direi ancora. In ogni caso non vedo un doppio pericolo di due razzismi speculari vicendevolmente alimentati, contro gli ebrei e contro i musulmani. La situazione è più confusa. Proprio per questo è deplorevole che un’iniziativa di grande dimensione come la Conferenza di Ginevra sul razzismo, invece di essere l’occasione per una maturazione collettiva, offra il penoso spettacolo del contrasto irrisolto tra le grandi culture e dell’impotenza dell’Occidente.
Il fatto è che il razzismo è diventato l’indicatore più potente e comodo per stigmatizzare ciò che si considera il male, il nemico. Anzi il proprio nemico. Ma in questo modo la definizione di che cosa sia il razzismo, la sua imputazione, la lotta efficace contro di esso sono diventati strumenti politici diretti. Un classico esempio di politicizzazione di principi che dovrebbero invece ispirare una politica di intesa e azione comune.
È in questa situazione che si è cacciata la Conferenza di Ginevra, dopo la cattiva prova della volta precedente a Durban nel 2001. Non è più il «luogo del dibattito etico», ma il posto dove si esibiscono i muscoli della nuova ideologia anti-occidentale, prendendo come pretesto il caso di Israele.
Al centro del contrasto infatti c’è l’idea del mondo islamico di considerare il «sionismo come ideologia razzista» e quindi di accusare lo Stato di Israele di essere razzista, di praticare una politica razzista. Corollario di questa accusa è il disconoscimento del suo diritto di esistere come Stato. Questa posizione è sostenuta con particolare aggressività dal rappresentante dello Stato teocratico iraniano, che considera l’Olocausto una «invenzione sionista». Per quanto sappiamo, i rappresentati di molte nazioni, non soltanto occidentali, hanno cercato in tutti i modi, nella fase preparatoria della Conferenza, di far correggere questo atteggiamento. Ma nonostante qualche aggiustamento non è stato raggiunto l’obiettivo.
È chiaro che non si tratta di difendere per principio la politica israeliana o di risparmiarle critiche, anche molto severe, soprattutto in merito a recenti decisioni nella questione palestinese. Israele sta commettendo molti errori. Ma soltanto chi è ossessivamente vittima di un’ottica etnicista (razzista) può imputarli ad una presupposto razzista. Il razzismo è la negazione della pari dignità umana, culturale, politica ad un gruppo sociale o etnico «altro», sino a prevederne o addirittura ad augurarne il virtuale annientamento. Ma non è esattamente questo l’atteggiamento di chi accusa oggi Israele di essere razzista?
Per uscire dall’imbarazzo e prendere una posizione che si vuole super partes, si va ripetendo che, se è deplorevole l’antisemitismo, non lo è da meno l’islamofobia. Anzi si insinua che è la montante islamofobia (legata al sospetto di terrorismo), non solo in Israele ma nell’Occidente intero, ad attizzare l’antisemitismo.
Segnali di una crescente insofferenza anti-islamica sono evidenti anche in Italia. Nel nostro Paese per superficialità e ricattabilità del ceto politico si tollerano atteggiamenti indecenti e irresponsabili persino presso rappresentanti delle forze partitiche. Parlando di islamofobia tuttavia occorre distinguere tra un generico atteggiamento xenofobo, che con il passare degli anni si è diffuso e rafforzato, cambiando obiettivo, investendo di volta in volta albanesi, romeni o zingari, e la specifica diffidenza verso il mondo musulmano. Se il primo tipo di immigrati produce un senso di insicurezza individuale, legato ad aspettative e timori di criminalità, l’immigrazione musulmana dà luogo ad un altro insieme di sentimenti. La vivacità dei piccoli mercati rionali, la presenza riservata delle donne velate con i loro bambini sempre più numerosi nelle scuole materne, e gli adulti maschi che fanno una cosa per noi inconsueta: pregano con gesti pubblici altamente espressivi eppure semplici. Tutto questo genera un oscuro senso di timore reverenziale. Si percepisce confusamente una sfida culturale, cui si reagisce maldestramente immaginando «radici cristiane», di cui in realtà non si sa più nulla. Ma l’effetto più devastante lo fa il sospetto - ingiustificato - di terrorismo.
Diventa così difficile stabilire una vera comunicazione con gli islamici a livello quotidiano. La gente normale è a corto di argomenti. L’invadente chiacchierona televisione nostrana non sa che cosa dire. Ripete banalità «politicamente corrette», ma non trasmette informazioni serie. Gli intellettuali sono ancora distratti, ma qualcuno - a corto di argomenti - parla di islamizzazione dell’Europa. Islamofobia? Da noi, non direi ancora. In ogni caso non vedo un doppio pericolo di due razzismi speculari vicendevolmente alimentati, contro gli ebrei e contro i musulmani. La situazione è più confusa. Proprio per questo è deplorevole che un’iniziativa di grande dimensione come la Conferenza di Ginevra sul razzismo, invece di essere l’occasione per una maturazione collettiva, offra il penoso spettacolo del contrasto irrisolto tra le grandi culture e dell’impotenza dell’Occidente.
fonte: da "la Stampa" del 21 aprile 2009