Rassegna Stampa

tratto da La Stampa, 29.12.2008

Non si tagliano le radici degli immigrati
di Giovanna Zincone

Le crisi mettono a nudo le debolezze strutturali di un sistema, le inefficienze e le contraddizioni delle strategie politiche adottate in tempi di relativa quiete, il carattere spesso poco meditato delle ricette ad hoc. Il trattamento dell’immigrazione non fa eccezione.

In Italia il decreto flussi per il 2009, pescando sulle domande dell’anno precedente, quindi su uno stock di lavoratori in gran parte già presenti, ha confermato il fatto che da noi si entra di straforo e poi, in qualche modo, si viene regolarizzati. Lo stesso decreto ha assegnato più del 70% dei permessi di soggiorno al lavoro domestico e di cura, evidenziando ancora una volta un carattere chiave del nostro modello di Welfare. Una serie di funzioni, in particolare la cura degli anziani e della prima infanzia, sono lasciate alle famiglie e a loro si preferisce dare un sostegno in denaro piuttosto che in servizi. È una scelta che può piacere sul piano dello stile di vita collettivo, ma che pone problemi specialmente oggi, quando i redditi delle famiglie si assottigliano e i trasferimenti certo non crescono. Ne risulta comunque che in Italia si utilizza molto più lavoro domestico che in altri Paesi europei. È una caratteristica che condividiamo con la Spagna. E non è la sola. Abbiamo in comune anche una realtà di flussi migratori molto consistenti, concentrati in tempi relativamente brevi. Questo fenomeno sta producendo in entrambi i Paesi, un tempo tolleranti, preoccupanti reazioni di rigetto. Oggi la crisi economica potrebbe acuire le tensioni interetniche già esistenti e fare emergere quelle latenti.

In Spagna la disoccupazione ha già ricondotto un’offerta di lavoro nazionale nell’agricoltura, causando competizioni e attriti con i lavoratori immigrati. Questi conflitti e la situazione di generale esubero di forza lavoro hanno indotto il governo spagnolo ad adottare una vecchia ricetta, che era già stata sperimentata in Germania e in Francia dopo lo choc dell’aumento del prezzo del petrolio e la successiva recessione del 1974: dare incentivi perché i lavoratori stranieri rientrino nella patria di origine. Si tratta di una misura poco sostenuta dall’esperienza, perché già in passato la strategia del rimpatrio remunerato si era dimostrata inefficace, e tale si sta rivelando anche oggi in Spagna. Questo tipo di intervento evidenzia una delle contraddizioni che hanno caratterizzato a partire dagli Anni 90 le politiche migratorie di molti Paesi europei, e che si sono riflesse nelle linee adottate dall’Unione Europea. Si sono accentuate le richieste di assimilazione culturale: il requisito di conoscere la lingua del Paese di immigrazione riguarda non solo chi vuole la cittadinanza o la carta di soggiorno, ma in certi casi anche il rinnovo del permesso o i coniugi che si ricongiungono. Agli immigrati si chiede di apprendere in tempi brevi la storia e la cultura del Paese di residenza, di abbandonare atteggiamenti di preminente lealtà nei confronti della patria di origine; in un test di integrazione si è arrivati perfino a pretendere che gli immigrati tifassero per le squadre di calcio locali.

Le richieste rivolte agli immigrati di rispettare i valori civili fondamentali dello Stato dove risiedono, di conoscere con il tempo la lingua del Paese di cui vogliono diventare cittadini sono più che sensate. Ma l’assimilazione all’istante, l’abbandono della cultura d’origine, l’espianto delle radici sono in contraddizione con la volontà di utilizzare la forza lavoro immigrata come esercito di riserva, un contingente che si può rispedire al mittente quando non serve. È una pretesa che precede la crisi attuale e che si è tradotta in misure tese a favorire un’immigrazione temporanea e a rotazione. Nel caso italiano, la richiesta di rapida assimilazione e di abbandono della cultura di origine stride poi notevolmente con l’intenzione e la convinzione che i discendenti degli italiani immigrati all’estero mantengano forti legami con la madre patria. Una presunzione che ha giustificato la trasmissione della nostra cittadinanza da parte di una singola persona di nazionalità italiana immigrata all’estero a nipoti e pronipoti. Questi italiani per diritto ereditario possono non conoscere la nostra lingua (come di fatto molto spesso accade) e non essere mai venuti in Italia. Ma gli stessi individui godono - come è noto - di una specifica rappresentanza parlamentare. Una rappresentanza che, in caso di maggioranze risicate, come nell’ultimo governo Prodi, può risultare determinante.

In una situazione di questo genere continuano a suscitare proteste le proposte, avanzate anche da sensati politici del centrodestra, come l’attuale presidente della Camera, di concedere il voto locale agli immigrati lungo-residenti e di facilitare l’acquisizione della cittadinanza da parte di bambini che hanno studiato in Italia. Purtroppo anche da noi sono presenti personaggi politici ai quali si potrebbe applicare la considerazione fatta dallo scrittore scozzese O’Hagan sulla New York Review of Books a proposito di politici nazionalisti suoi conterranei: «Non parlano in modo veritiero del passato, non hanno una visione del futuro, sono bloccati in un presente ignorante, alla ricerca di vantaggi immediati». Della disinvolta corsa al profitto politico, come di quella al profitto economico, entrambe condotte a opera di pochi, a pagare i conti sono e saranno in molti.