Rassegna stampa

Giustizia: Caselli; in Italia è impossibile processare la politica

di Francesco La Licata

Mafia e politica: un tema rovente che ha alimentato e alimenta polemiche furiose, che costituisce elemento di forte contrapposizione istituzionale fra magistratura ed esecutivo. Occasioni di crisi, quasi sempre, sono le sentenze dei processi contro uomini importanti del potere, istruiti durante quella stagione dell’antimafia seguita alle stragi di Falcone e Borsellino. Non più di una settimana fa si è concluso con una assoluzione in appello (dopo una condanna annullata dalla Cassazione) il dibattimento che vedeva imputato di associazione mafiosa l’ex ministro Calogero Mannino. La sentenza ha finito per funzionare da detonatore alla consueta esplosione di contestazioni all’indirizzo di Gian Carlo Caselli, il magistrato che guidò l’ufficio del pubblico ministero di Palermo dal ‘93 al ‘99 e che è stato considerato l’ispiratore di una stagione giudiziaria, oggi contestatissima anche per i risultati delle sentenze spesso sfavorevoli alle tesi dell’accusa.
L’assoluzione del Presidente della Provincia di Palermo, l’azzurro Francesco Musotto, poi il colpo di spugna sulla vicenda dell’ex presidente della Prima Sezione della Cassazione, Corrado Carnevale; poi ancora l’ambigua sentenza - "un po’ condannato e prescritto, un po’ assolto" - su Giulio Andreotti, fino ad arrivare a Mannino. Una "serie negativa", seppure con qualche sentenza di segno opposto (Contrada, D’Antone), ormai marchiata come la fine di una stagione, una sconfitta per la Procura di Gian Carlo Caselli.

È così. Procuratore?
"Mi consenta innanzitutto una premessa di metodo: non parlo dei singoli processi e dei singoli imputati. Fine della stagione dei processi politici? Se non fosse un problema serio e drammatico mi verrebbe persino da ridere. Perché o i rapporti tra mafia e politica se li è inventati la Procura di Caselli - ma non credo esista in giro tanta faccia tosta - oppure i rapporti tra mafia e politica sono finiti, tesi davvero insostenibile. Di conseguenza può parlare di stagione conclusa chi ha la coda paglia o chi lavora per una inversione di tendenza, per il ritorno al quieto vivere".

Possiamo andare con ordine, dott. Caselli? L’idea di una sconfitta della linea, diciamo, "caselliana" sembra confortata dalle sconfitte in aula.
"Sconfitte? Qui sbagliano i nostri detrattori. Intanto perché solo in una dittatura si dà per scontato che il pm debba avere sempre ragione. In uno stato di diritto il pm ha lavorato bene quando ha ottenuto il rinvio a giudizio, perché ottenendolo dimostra che ci sono fatti reali da indagare. Indagini tutelate dal controllo esercitato da molteplici organismi giudiziari, terzi rispetto ad accusa e difesa".

Però le sentenze colpiscono l’immaginario collettivo e non vi sono state favorevoli.
"I processi ai cosiddetti imputati eccellenti hanno avuto esiti contrastanti, diversi per ciascuna fase di giudizio. Ma questa è la fisiologia della storia dei processi di mafia. Anche il maxiprocesso ha attraversato fasi diverse, fino alla Cassazione dove - secondo una certa ricostruzione - importante se non decisivo è stata la presenza di un presidente diverso da quello originariamente designato".

Stiamo parlando di Corrado Carnevale, che è stato assolto in Cassazione.
"Le ricordo la premessa iniziale: niente singole vicende".

Va bene. Rimane il fatto che i processi contro la bassa macelleria mafiosa sono andati in un certo modo, quelli che riguardano il salotto buono di Cosa nostra non hanno avuto eguale fortuna.
"Ovviamente rispetto tutte le sentenze, ma dentro questo rispetto è possibile fare qualche riflessione. Lo faccio per amore di verità e non per autodifesa, perché non credo di aver nulla da cui dovermi difendere. Anzi con un certo orgoglio posso premettere che la Procura di Palermo ha fatto interamente il proprio dovere senza nessuna paura, né fisica né d’altro genere, ottenendo - oltretutto - risultati imponenti. Vado per sintesi: latitanti catturati per numero e per caratura criminale come mai né prima né dopo; arsenali di armi, compresi missili e bazooka, sequestrati e quindi stragi impedite; beni confiscati per 10.000 miliardi di vecchie lire; la nascita della cosiddetta antimafia dei diritti attraverso la redistribuzione alle cooperative giovanili delle risorse sottratte alla società civile. In una parola abbiamo ridato credibilità allo Stato, dopo il baratro in cui stava precipitando con le stragi del ‘92. E poi i processi: 650 ergastoli, centinaia di anni di reclusione. In particolare rivendico che gli autori della strage di Capaci siano stati tutti arrestati dalla Procura di Palermo. Lo stesso ufficio, il procuratore di Palermo, ha raccolto la confessione del collaboratore Santino Di Matteo - che al procuratore e a lui soltanto aveva chiesto di parlare delle diverse fasi della strage - consentendo agli ottimi colleghi di Caltanissetta di far decollare un’inchiesta difficilissima".

E poi? Si è rotto il giocattolo?
"Sembrava fatta, poi qualcosa si è messo di traverso. Paradossalmente siamo stati noi stessi pm a farci del male rifiutando la comoda idea di essere furbi, miopi, accomodanti, assecondando quella prassi del passato di confermare a parole l’esistenza dei legami tra mafia e politica senza andarli a cercare e processarli. Ma noi pm saremmo stati vigliacchi, avremmo tradito l’eredità di Falcone e Borsellino. Così la strada si è fatta in salita: una campagna violenta ci ha definiti di volta in volta matti, antropologicamente diversi, cancro e via insultando. Ma anche questo è fisiologico: accadde così a Falcone quando si occupò di Ciancimino, dei Salvo e dei Cavalieri del Lavoro di Catania. C’è un momento preciso dell’inversione di tendenza, una sorta di avviso ai naviganti: quando viene inquisito il presidente della Provincia di Palermo, appena mezz’ora dopo, senza conoscere una sola carta processuale, molti avvocati in toga e i vertici siciliani di Forza Italia scendono in piazza a protestare. Messaggio chiaro: se si va oltre un certo livello non va bene".

Rimane il nodo degli esiti diversi dei processi.
"I pm e i metodi di lavoro sono sempre gli stessi, sia per la mafia bassa che per l’altra. Il problema sta forse nel fatto che nel secondo caso le prove sono oggettivamente più difficili. Forse gli strumenti legislativi non sono adeguati e allora si provveda a correggerli. O forse dipende dal fatto che storicamente Cosa nostra tende a proteggere con maggior segretezza le proprie amicizie importanti. Ma gli esiti altalenanti non devono diventare pretesto per ragionamenti a senso unico".

In breve, ci spieghi meglio.
"Resto indignato per quello che è stato detto e scritto sulla definitiva sentenza della Cassazione su Giulio Andreotti, in relazione al "reato commesso fino al 1980". E il reato commesso è quello di partecipazione all’associazione per delinquere Cosa nostra. Stravolgere questo verdetto, parlando di assoluzione e persecuzione, significa non avere rispetto per le sentenze".

Fonte: da “La Stampa” - 3 novembre 2008