Pensando

da “Lettera a un insegnante”,
di Vittorio Andreoli

Non dimenticare mai il dramma dei ragazzi rotti, rotti dalla scuola per omissione talora, per incompetenza, persino per stupidità che diventa esclusione e violenza persecutoria.
Ti prego di credere che ormai la scuola è parte delle cause di patologia del comportamento giovanile.
Una scuola che non aiuta a vivere, ma esclude e complica ancor più la vita di un bambino o di un adolescente, è crudele.
Mi fanno ridere le classificazioni: il superdotato, l'asino, quello della mano sempre alzata, il "potrebbe fare di più", il ragazzo del sei meno meno, quello dell'otto più, l'incompreso, lo stratega.
Il disperso: la sua assenza non dovrebbe farti più dormire e dovrebbe attivare in tutti noi la colpa, come se la scuola avesse "ucciso un adolescente", un bambino, anche se lo ha fatto senza sporcarsi le mani: i delitti perfetti della scuola. Alle pareti di ogni istituto e forse anche della tua classe si dovrebbe attaccare qualche croce perché lì è morto, è stato assassinato uno che veniva semplicemente per essere compreso e per imparare a vivere.
Non è la demagogia del pianto, la mia, ma la testimonianza del dolore che io vedo e tu, caro insegnante, forse nemmeno immagini.
Questa è la forza che mi permette in questa lettera di parlarti di scuola, di scuola mancata, perché commetta meno errori, perché serva a vivere e non a decorare di zimbelli e addobbare magari chi è già pieno di ninnoli.
Una scuola dove falliscono più facilmente i deboli, mentre i forti, i figli dei potenti, riescono sempre ad uscirne intatti, anche se vuoti poiché vanno avanti mercanteggiando dignità, come sempre fa il potere. La scuola del potere, dentro e vicino alla miseria. La scuola retta solo dai potenti per generare impotenti.
Ricordati delle croci e dei dispersi, e insegna a tutti che ogni fallimento scolastico e ogni fuga dalla scuola è una sconfitta che sa di omicidio e se la causa è la famiglia, interrogati se non era possibile coinvolgerla in un progetto di educazione del proprio figlio, magari tentando di educare i suoi genitori, che hanno fatto figli ma non sono mai diventati madre e padre. Troppo spesso a una famiglia che sa di morte si aggiunge una scuola che manda a morte, aggiungendo morte a morte. La scuola deve insegnare a vivere, a vivere meglio, a promuovere alleanze tra compagni per un aiuto comune a imparare a vivere e non per fare della classe un campo di guerra, una corsa a sgambetti per una classifica della stupidità.
La fuga non sempre si esprime nell'aumento delle assenze fino alla dispersione scolastica, talora è una fuga dentro la propria psiche che rende passivi e si sta in classe, ma è come non esserci. Vivere come si fosse morti.
Sono dunque contro la competitività, il solipsismo che la società del tempo presente ha promosso persino negli asili, come se la vita fosse la lotta e il successo fosse quello sancito da Darwin. Credo invece che l'educazione si fondi sul gruppo, sulla collaborazione, sulla solidarietà e sull'aiuto reciproco che, lo ripeterò all'infinito, non escludono il talento, che semplicemente si sviluppa e si esprime dentro il gruppo, per il gruppo e non per il proprio io.
L'io si è imposto persino dentro la famiglia che sta diventando un luogo del conflitto e della lotta e non della serenità. Una sorta di ring da dove si esce storditi, vincitori e vinti.
La scuola organizzata per graduatorie, per inventare il primo e l'ultimo e dunque mandare in paradiso e all'inferno, con una grande parte di studenti da purgatorio, non provoca soltanto danni alla vita degli ultimi, ma anche a quella del primo della classe.
La sindrome del più bravo è una delle condizioni che compromettono maggiormente lo sviluppo armonico di un giovane in crescita: una vera disgrazia, non diversamente da chi è posto nel girone più basso dell'inferno, dove si deve lasciare ogni speranza.