Rassegna Stampa

tratto da "Nigrizia", gennaio 2008

UNA RISTRETTA MINORANZA
Fede, speranza e… conti correnti

Non siamo abituati a nasconderci dietro un dito. E non intendiamo cominciare a farlo ora su un argomento che ci vede impegnati in prima persona, come rivista missionaria. Quando, nel dicembre del 1999, abbiamo lanciato - assieme alle riviste Missione Oggi e Mosaico di pace - la campagna di pressione alle “Banche armate” (*), eravamo convinti che il nostro mondo di riferimento, quello delle parrocchie e delle diocesi, fosse già sensibile e che avrebbe risposto, eccome.
Invece, da quei pulpiti è arrivata una risposta fiacca. Al punto che le parrocchie dichiaratamente “disarmate” sono, forse, qualche decina. Eppure, la campagna non chiede la luna. Chiede che le realtà ecclesiali, spesso con una forte presa sul territorio, si pongano in maniera trasparente - e, dunque, pubblica - un problema molto semplice: è etico tenere rapporti economico-finanziari con istituti di credito implicati nel commercio delle armi?

Intendiamoci: lo scarso riscontro della campagna sul versante chiesa può essere imputato alla campagna stessa. E qui facciamo autocritica. Solo negli ultimi anni ci siamo strutturati un pò, ci siamo dati un coordinatore, organizziamo convegni, facciamo parte della Rete Disarmo e teniamo aggiornato il sito (www.banchearmate.it). Insomma, facciamo più lavoro di lobby e sollecitiamo l’opinione pubblica non solo con gli articoli sulle riviste. Ma i mezzi di cui disponiamo sono quelli che sono e le incombenze redazionali assorbono tanta parte delle energie. Quindi, può benissimo darsi che, disponendo di antenne poco sofisticate, non siamo riusciti a intercettare l’attivismo di questo o di quel parroco (che magari, a sua volta, non ha mai trovato il tempo di segnalarci le sue iniziative in questo campo).
E, tuttavia, possiamo dedurre che le parrocchie che hanno accettato la sfida della finanza etica siano un’esigua minoranza, analizzando alcuni dati recenti di Banca Etica (Be). Le parrocchie che hanno instaurato un rapporto o hanno deciso di aprire un conto corrente presso Banca Etica sono circa 180 (di queste, 126 sono socie di Be). Le diocesi che hanno fatto lo stesso passo sono 33 (di cui 15 socie). I centri missionari diocesani che hanno imboccato questa strada sono 16 (di cui 7 soci). Naturalmente, non sappiamo se, contestualmente, queste parrocchie, diocesi e centri missionari abbiano anche altre banche di riferimento (magari “armate”). È istruttivo, comunque, tener presente che in Italia le parrocchie sono oltre 25mila, le diocesi 225 e i centri missionari diocesani 230. Per la campagna “Banche armate” il lavoro non manca.


L’ESEMPIO DI DON RENATO

Ma com’è che una parrocchia arriva a decidere di fare il salto? Ce lo spiega don Renato Sacco, diocesi di Novara, provincia di Verbania, area del Lago d’Orta. «In questo piccolo territorio di mezza collina, le iniziative verso le banche hanno una storia che comincia negli anni ‘80 e, dunque, hanno un certo radicamento. Abbiamo cominciato a muoverci ai tempi del Sudafrica dell’apartheid, quando Nigrizia fece quell’editoriale - “È l’ora delle banche” - che smascherava la connessione di alcune banche con il regime razzista».
Don Renato aveva all’epoca due parrocchie, Cesara e Arona, di neanche 800 anime. Nel tempo, essendo diminuito il numero dei preti, le parrocchie sotto la sua cura e responsabilità sono diventate quattro (si sono aggiunte Nonio e Grassona) e le anime sono quasi 2mila, dislocate su un’area che comprende tre comuni.
« Già una trentina di anni fa, avevamo collegamenti e aperture missionarie - continua il sacerdote, che fa parte di Pax Christi -, ma ciò che ci fece muovere, oltre all’editoriale, fu un convengo che Alex Zanotelli, all’epoca direttore di Nigrizia, tenne dalle nostre parti. La prima mossa fu di scrivere, come parrocchia, una lettera ai militanti politici tenuti in galera dal regime sudafricano. E ciò ci consentì di far comprendere meglio ai parrocchiani che cosa stava succedendo da quelle parti. Ci siamo resi conto che c’era una certa sensibilità e che la gente cominciava a chiedersi che cosa potesse fare personalmente per cambiare le cose. A quel punto, considerato che la banca, depositaria del denaro della parrocchia, aveva rapporti con il Su-dafrica, non è stato difficile sottolineare la contraddizione». Allora, è entrata in gioco la commissione parrocchiale degli affari economici, che ha preso contatto con la banca in questione, spiegato per filo e per segno dov’era il problema e, costatato il totale disinteresse da parte dell’istituto di credito, chiuso il conto.
Don Renato: «Da lì in poi, non abbiamo mai smesso d’interrogarci intorno ai temi economici e delle ricadute che possono avere alcune nostre scelte. Io, inoltre, sono stato più volte a Sarajevo e in Iraq, e ho portato in parrocchia persone che testimoniassero che cosa significa vivere in mezzo alla guerra. Queste vittime/testimoni hanno contribuito a far maturare una maggiore consapevolezza sul rapporto guerra-armi-impiego del nostro denaro».
Quando parte la campagna “Banche armate”, di cui don Renato è uno dei promotori, ecco che le parrocchie s’interrogano nuovamente. Il coinvolgimento dei parrocchiani è, oggi come ieri, indispensabile. Alla fine, si decide di scrivere alle banche. «Ci siamo mossi - ricorda don Renato - con una certa decisione, tanto che ho chiuso subito vari conti correnti. Ma abbiamo scelto di tenerne aperto uno, proprio per mantenere il contatto con l’istituto di credito in questione. Purtroppo, però, la banca non ha mai aperto un vero dialogo. Anzi, a un certo punto, il direttore mi ha fatto capire di non rompere troppo le scatole. Ne ho tratto le conseguenze e ho chiuso anche l’ultimo conto».
Quanti parroci e vescovi alla don Renato ci sono in giro?


Missionari, un lento cammino
«La campagna “Banche armate” è stata assunta dalla Cimi, la Conferenza degli istituti missionari in Italia. Puntualmente, a ogni incontro, l’argomento torna ed è oggetto di dibattito. Siamo anche favorevoli al fatto che la campagna allarghi lo sguardo a livello europeo. Però, nessun istituto ha fatto un taglio netto con il passato. L’allontanamento dalle banche che appoggiano il commercio di armi e il conseguente avvicinamento a una finanza etica stanno avvenendo gradualmente».
Parole chiare e inequivocabili quelle di padre Giovanni Scudiero, presidente della Commissione giustizia e pace della Cimi, che raccoglie 14 istituti. Vediamo quali. Istituti maschili:
Comboniani, Missionari della Consolata, Pontificio istituto missioni estere, Padri Bianchi (Missionari d’Africa), Società missioni africane, Saveriani, Verbiti. Istituti femminili: Comboniane, Missionarie dell’immacolata, Missionarie della Consolata, Missionarie saveriane, Mariste, Francescane missionarie di Maria, Missionarie di Nostra Signora degli Apostoli. Per guardare in casa del nostro editore e per saperne di più, abbiamo chiesto lumi a padre Giorgio Dorin, economo provinciale dei Comboniani. Che spiega: «Il Collegio missioni africane, editore in senso stretto di Nigrizia, ha due banche di riferimento che non fanno parte della lista delle Banche armate. Per quanto riguarda i Comboniani, stiamo facendo la politica dei piccoli, ma decisi, passi, per servirci solo di sportelli bancari non armati. Del resto, questa è la scelta fatta dalla provincia italiana e dal superiore, padre Alberto Pelucchi, che è anche presidente della Cimi».


La Cei, il denaro e il Regno
I lettori di Nigrizia non sono lettori qualsiasi. Un’ultima conferma arriva da Torino. Carlo Tresso, nostro abbonato, ci ha inviato la copia di una lettera che ha spedito a Sowe-nire, il servizio della Conferenza episcopale italiana per la promozione del sostegno economico alla chiesa cattolica. Una let-tera di protesta, perché nel bollettino che gli arriva a casa, da utilizzare per inviare l’offerta, c’è una lunga lista di banche che non lo convincono, Carlo ritiene «che vivere la vita della chiesa significa anche contri-buire ai relativi oneri economici» ma, appunto per questo, si dice «scandalizzato dalla scelta delle banche d’appoggio». E come dargli torto? In una lista di 33 istituti di credito ben 16 sono Banche armate. Per essere più precisi: Cassa di risparmio di Firenze, Banca di Roma (Capitalia), lntesa-Sanpaolo, Banca popolare commercio e industria (Ubi), Banca popolare dell’Emilia Romagna, Banca popolare di Bergamo (Ubi), Banca popolare di Milano, Banco di Brescia (Ubi), Banco di Sicilia (Capitalia), Bipop-Carire (UniCredit Banca d’impresa), Banca nazionale del lavoro (Gruppo Bpn Paribas), Cassa di risparmio di Bologna (lntesa-Sanpaolo), Unicredit Private Banking (UniCredit Banca d’impresa), Cassa di risparmio e Padova e Rovigo (intesa-Sanpaolo), Deutsche Bank, San Paolo lmi. «Nessuno ha pensato - scrive Carlo - che le nostre offerte, invece che contribuire alla costruzione del Regno, di fatto ne agevolano la distruzione? Spero di non essere l’unico a pensare che la chiesa, anche in campo economico, sia chiamata a un gesto profetico:
la gestione del denaro deve essere cosciente, responsabile e lucidamente diretta alla realizzazione dei valori più autenticamente cristiani». Sottoscriviamo.

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(*)
La campagna di pressione “Banche Armate” è un’iniziativa nata nel 1999 (e operativa dal 2000) per volere delle riviste Missione Oggi, Nigrizia e Pax Christi. Ha lo scopo di esercitare una pressione sulle banche, favorendo un controllo attivo da parte dei cittadini. Viene monitorata, in particolare, la normativa italiana che regola l’esportazione di armi (legge 185/90). La lista che ogni anno viene pubblicata dalla presidenza del consiglio non rivela gli istituti di credito che hanno finanziato direttamente l’industria o il commercio di armi. Segnala, invece, quante volte e per quali importi una banca ha accreditato al cliente soldi che questo ha guadagnato vendendo armi all’estero. È una campagna che chiede trasparenza e coerenza al mondo del credito e agli stessi cittadini. Le operazioni bancarie relative a esportazioni definitive di armi autorizzate dal ministero dell’economia e delle finanze fotografano un evidente incremento negli ultimi 5 anni (più di un raddoppio), passando dai 736 milioni di euro del 2002 ai 1.493 milioni del 2006. Un trend che va di pari passo con l’aumento del portafoglio d’ordini delle esportazioni di armamenti, che nel 2006, con 2.324 milioni di euro, ha raggiunto la cifra record degli ultimi 15 anni.
Una campagna che ha ottenuto, nel tempo, qualche frutto, Il Monte dei Paschi di Siena, nel 2001, decide di sfilarsi. Seguito dalla Cassa di risparmio di Firenze (che compare ancora nella lista, a causa della sua controllata Cassa di risparmio della Spezia). Nel 2002 l’annuncio tocca alla Banca nazionale del lavoro (tuttavia ancora presente nella lista). Recenti alcune delle scelte più eclatanti. Nel gennaio 2006 il direttore generale della Banca di Roma rivela di aver disposto limitazioni relative ai paesi destinatari e sistemi d’arma esportati. Nel febbraio 2007 è la Banca popolare di Milano a dichiarare l’uscita da quel mercato. 1113 luglio 2007, Intesa-Sanpaolo rende noto «di aver sospeso la partecipazione a operazioni finanziarie riguardanti il commercio e la produzione di armi e di sistemi d’arma, pur consentite dalla legge 185/90». Una posizione assunta «in coerenza con i valori e i principi espressi nel codice etico», Il mega istituto, tuttavia, qualche problema continua ad averlo. Long belga Netwerk Vlandereen ha pubblicato, l’autunno scorso, uno studio intitolato Too Riskyfor Business - Financial Institutions and Uranium Weapons, in cui, tra gli altri aspetti, elenca le 50 banche che hanno rapporti con tre imprese statunitensi produttrici di armi all’uranio impoverito. Una è italiana: lntesa-Sanpaolo.
A ottobre, il gruppo UBI (Unione Banche Italiane), decide che «ogni banca del gruppo dovrà astenersi dall’intrattenere rapporti relativi all’export di armi con soggetti che sono residenti in paesi non appartenenti all’Unione europea o alla Nato», Inoltre, verrà tenuto conto «delle indicazioni fornite dalle principali organizzazioni non governative di riferimento». Invece, il primo gruppo italiano, Unicredit-Capitalia, non ha ancora adottato una linea al riguardo. Anzi: nonostante le dichiarazioni dell’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, di aver emesso «ordini di servizio che disponevano dal 1° gennaio 2001 di non assumere più nuovi contratti di questo tipo», Unicredit da due anni ricompare nella lista con quote rilevanti: 101 milioni di euro nel 2005 e 86,7 milioni nel 2006.