Unità repubblicana, di Raniero La Valle
È più di una crisi di governo. È il punto d’arrivo di un’opera di distruzione della Repubblica e perciò della democrazia cominciata quando si disse che la Prima Repubblica era finita, e in realtà si
intendeva dire che la Repubblica doveva finire. Naturalmente per fare della «Cosa pubblica» una piramide di proprietà private, occorreva distruggere lo stampo in cui una Repubblica potesse essere modellata e rimodellata, e questo stampo era la politica. Per distruggere la politica, cioè il pro
cesso attraverso cui un agglomerato di individui si pensa e si trasforma in una città di cittadini, occorreva cambiare radicalmente la ragione sociale, cioè la «vision» e la «mission» della politica, sostituendone il fine, che è il bene comune, con il mezzo, che è il potere, e cioè mettendo il servo — il potere — al posto del signore che, in democrazia, è popolo. E la democrazia doveva rimanere solo come un involucro di procedure elettorali atte non a esprimere la rappresentanza degli infiniti volti del Paese, ma ad assegnare tra i giocatori l’unico trofeo in palio, cioè il dominio di uno o di pochi su tutti.
Il potere, staccato dal suo fine e identificato col dominio è: avere clienti e scherani, distribuire posti e prebende, appalti e concessioni, prendere complici per ministri, mafiosi per giardinieri, funzionari di partito per ginecologi, farsi leggi per sé e farsi beffe delle condanne, godere di privilegi di ville, palazzi, aerei, elicotteri e auto di Stato e fare denaro a mezzo di denaro. In ciò mutata la politica, essa fa sì che comportamenti ieri virtuosi e dovuti (ad esempio votare in Parlamento secondo coscienza e «senza vincolo di mandato»), vengano oggi messi alla gogna, che dei reati siano resi legittimi e che azioni di corruzione e concussione, benché non ancora legittime, siano considerate normali, sicché se qualche giudice maldestramente continua a occuparsene, succede il finimondo.
Riuscire a fare tutto ciò, e in soli 15 anni, non era affatto semplice. Non sarebbe bastato uno Stregone che apertamente se lo fosse proposto. Ci volevano, e ci sono stati,molti apprendisti stregoni che perfino pensassero di far bene. Da quello che volle togliere le preferenze perché non si venisse a sapere chi le aveva date, a quello che voleva «restituire lo scettro al popolo» e glielo toglieva privandolo del solo modo in cui il popolo può usare lo scettro, cioè la sovranità, attraverso la rappresentanza; da quelli che vollero sciogliere i loro stessi partiti, col pretesto di cambiarne il nome, a que1li che volevano sciogliere tutti i partiti, per farne uno o due senza ideologia, senza religione, senza cultura, senza pudore, senza quadri, senza scuole di formazione, senza sedi, ma solo con navi autobus e treni su cui scendere e salire durante le campagne elettorali. I nomi di questi apprendisti stregoni ce li può mettere chiunque, da Segni a Parisi a Guzzetta, ma sono legione.
E infine per riuscire all’impresa bisognava distogliere gli italiani dalle antiche culture, staccarli dalle vecchie ideologie, dissuaderli dalla fedeltà ai valori sanciti dalla Resistenza, disancorarli dai principi fondamentali della Costituzione; ci voleva un Grande Dissuasore, e si è trovato di più: si è avuto il Grande Diseducatore degli italiani con il suo esempio, i suoi modelli, le sue case editrici,
i suoi giornali e le sue televisioni (fuori legge, dice — solo ora! — l’Europa).
Tale essendo alfine diventata e raccontata la politica, nonostante il tentativo di onestà e serietà dell’ultimo presidente del Consiglio (mal tollerato anche dai suoi per quel suo sentirsi adulto in un mondo di immaturi) essa è ormai zimbello di tutti, dai comici di ogni estrazione e spessore, agli studi televisivi di destra e di sinistra, dai moralizzatori intransigenti agli invidiosi scontenti di
non appartenere anche loro alla casta. E la politica è fatta anche di brandelli anche nei giorna1i parrocchiali, che credono di essere neutrali, e anche da straordinari preti come Alex Zanotelli che anima la rivolta dei campani contro le discariche come se fossero le lotte dei dannati della terra a Korogocho, e anche dal vescovo che rinfaccia al sindaco il degrado della città e non si rende conto che se questa non è politica, come non si addice al vescovo, di sicuro è antipolitica.
E dall’albero così scosso, c’è ora chi è pronto a raccogliere i frutti, e lo vuole fare subito, perché per ogni fascismo c’è un momento di cui si può dire: ora o mai più. C’è un solo modo di impedirlo: costituire per le elezioni una unità repubblicana che lotti alla Camera per il premio di maggioranza e contenda il Senato palmo a palmo, collegio per collegio, alla destra, perché essa non faccia il pieno delle due Camere e il cerchio non si chiuda chissà per quanti anni. E poi dar mano a ricostruire lo spirito della Repubblica e la dignità della politica.
intendeva dire che la Repubblica doveva finire. Naturalmente per fare della «Cosa pubblica» una piramide di proprietà private, occorreva distruggere lo stampo in cui una Repubblica potesse essere modellata e rimodellata, e questo stampo era la politica. Per distruggere la politica, cioè il pro
cesso attraverso cui un agglomerato di individui si pensa e si trasforma in una città di cittadini, occorreva cambiare radicalmente la ragione sociale, cioè la «vision» e la «mission» della politica, sostituendone il fine, che è il bene comune, con il mezzo, che è il potere, e cioè mettendo il servo — il potere — al posto del signore che, in democrazia, è popolo. E la democrazia doveva rimanere solo come un involucro di procedure elettorali atte non a esprimere la rappresentanza degli infiniti volti del Paese, ma ad assegnare tra i giocatori l’unico trofeo in palio, cioè il dominio di uno o di pochi su tutti.
Il potere, staccato dal suo fine e identificato col dominio è: avere clienti e scherani, distribuire posti e prebende, appalti e concessioni, prendere complici per ministri, mafiosi per giardinieri, funzionari di partito per ginecologi, farsi leggi per sé e farsi beffe delle condanne, godere di privilegi di ville, palazzi, aerei, elicotteri e auto di Stato e fare denaro a mezzo di denaro. In ciò mutata la politica, essa fa sì che comportamenti ieri virtuosi e dovuti (ad esempio votare in Parlamento secondo coscienza e «senza vincolo di mandato»), vengano oggi messi alla gogna, che dei reati siano resi legittimi e che azioni di corruzione e concussione, benché non ancora legittime, siano considerate normali, sicché se qualche giudice maldestramente continua a occuparsene, succede il finimondo.
Riuscire a fare tutto ciò, e in soli 15 anni, non era affatto semplice. Non sarebbe bastato uno Stregone che apertamente se lo fosse proposto. Ci volevano, e ci sono stati,molti apprendisti stregoni che perfino pensassero di far bene. Da quello che volle togliere le preferenze perché non si venisse a sapere chi le aveva date, a quello che voleva «restituire lo scettro al popolo» e glielo toglieva privandolo del solo modo in cui il popolo può usare lo scettro, cioè la sovranità, attraverso la rappresentanza; da quelli che vollero sciogliere i loro stessi partiti, col pretesto di cambiarne il nome, a que1li che volevano sciogliere tutti i partiti, per farne uno o due senza ideologia, senza religione, senza cultura, senza pudore, senza quadri, senza scuole di formazione, senza sedi, ma solo con navi autobus e treni su cui scendere e salire durante le campagne elettorali. I nomi di questi apprendisti stregoni ce li può mettere chiunque, da Segni a Parisi a Guzzetta, ma sono legione.
E infine per riuscire all’impresa bisognava distogliere gli italiani dalle antiche culture, staccarli dalle vecchie ideologie, dissuaderli dalla fedeltà ai valori sanciti dalla Resistenza, disancorarli dai principi fondamentali della Costituzione; ci voleva un Grande Dissuasore, e si è trovato di più: si è avuto il Grande Diseducatore degli italiani con il suo esempio, i suoi modelli, le sue case editrici,
i suoi giornali e le sue televisioni (fuori legge, dice — solo ora! — l’Europa).
Tale essendo alfine diventata e raccontata la politica, nonostante il tentativo di onestà e serietà dell’ultimo presidente del Consiglio (mal tollerato anche dai suoi per quel suo sentirsi adulto in un mondo di immaturi) essa è ormai zimbello di tutti, dai comici di ogni estrazione e spessore, agli studi televisivi di destra e di sinistra, dai moralizzatori intransigenti agli invidiosi scontenti di
non appartenere anche loro alla casta. E la politica è fatta anche di brandelli anche nei giorna1i parrocchiali, che credono di essere neutrali, e anche da straordinari preti come Alex Zanotelli che anima la rivolta dei campani contro le discariche come se fossero le lotte dei dannati della terra a Korogocho, e anche dal vescovo che rinfaccia al sindaco il degrado della città e non si rende conto che se questa non è politica, come non si addice al vescovo, di sicuro è antipolitica.
E dall’albero così scosso, c’è ora chi è pronto a raccogliere i frutti, e lo vuole fare subito, perché per ogni fascismo c’è un momento di cui si può dire: ora o mai più. C’è un solo modo di impedirlo: costituire per le elezioni una unità repubblicana che lotti alla Camera per il premio di maggioranza e contenda il Senato palmo a palmo, collegio per collegio, alla destra, perché essa non faccia il pieno delle due Camere e il cerchio non si chiuda chissà per quanti anni. E poi dar mano a ricostruire lo spirito della Repubblica e la dignità della politica.