tratto da "La Stampa" del 9/3/2008
Acqua privata, acqua salata, di Luca Fornovo
I consumi triplicheranno in 30 anni: caccia al business
Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo saranno combattute per l’acqua». La profezia fatta più dodici anni da Ismail Serageldin, allora vicepresidente della Banca mondiale, sembra a un passo dall’avverarsi.
Nel mondo è in atto una lotta tra ambientalisti e associazioni no profit contro le lobby dell’acqua (il blue gold, l’oro blu), accusate di una privatizzazione selvaggia delle risorse idriche. Ma da qualche giorno a P Street (Washington) Wenonah Hauter è tornata di buon umore.
Nel suo quartier generale la direttrice della Food & Water Watch, una delle associazioni no profit più attive nel rivendicare l’acqua come un diritto per tutti, sa di poter vincere una battaglia importante per mettere un freno allo strapotere delle multinazionali, come le francesi Veolia e Suez Lyonnaise des Eaux o le britanniche Awg e Kelda. Il Consiglio delle Nazioni Unite sta discutendo sull’obbligo di considerare nel novero dei diritti umani l’accesso all’acqua potabile. Un provvedimento indispensabile se si calcola che nel 2006 trentamila persone sono morte ogni giorno nel mondo per la mancanza d’acqua pulita.
Che il prezzo dell’acqua stia diventando sempre più alto, in tutti i sensi, ce ne siamo accorti anche in casa nostra, dove iniziano a fiorire associazioni, come il movimento per la «ripubblicizzazione dell’acqua», che dallo scorso dicembre ha iniziato a promuovere una serie di manifestazioni in tutta Italia contro la privatizzazione.
Un mondo, quello dell’oro blu, che conta 252 imprese idriche per un fatturato totale di 2.530 milioni di euro l’anno e 580 milioni di investimenti. E con la riforma negli anni Novanta (legge Galli), che ha introdotto gli Ambiti territoriali ottimali (Ato), sempre più imprese idriche (inizialmente tutte pubbliche) si sono decise a imboccare la strada della Spa. Oggi sono salite a sette le sorelle dell’acqua a Piazza Affari: la romana Acea, l’emiliana Hera, la triestino-padovana Acegas-Aps, Mediterranea delle acque, controllata da Iride, l’utility più importante del Nord Ovest, la piemontese Acque potabili e poi la bresciana Asm che, dopo la fusione con la milanese Aem, ha preso il nome di A2A.
Alle magnifiche sette va aggiunto lo storico Acquedotto pugliese (nato nel 1906), che non è presente a Piazza Affari, ma è tra i più grandi acquedotti d’Europa: ha un bacino di 4,4 milioni di utenti. Tutte aziende che con l’acqua fanno affari d’oro. Si va dagli oltre 1.600 euro per ogni 1000 metro cubo di acqua venduta da Hera, ai 1.089 euro dell’Acquedotto Pugliese ai 1.199 di Acea.
Col passare del tempo l’acqua sarà sempre più salata: la media delle tariffe dei 96 piani di ambito esaminati dal Blue Book, il rapporto annuale messo appunto dal centro studi di FederUtility, l’associazione di categoria, è di 1,19 euro al metro cubo. Le previsioni indicano un aumento a 1,32 al 2010 (+10%), per poi salire nel 2020 a 1,51 (+26,9%). Un mega salasso per i consumatori che trova solo in parte giustificazione dalle sete d’investimenti che hanno gli acquedotti: servono 61,6 miliardi da qui al 2020 per ammodernare reti e fognature. Perché il caro-tariffe servirà anche ad alimentare i profitti delle multinazionali tascabili dell’oro blu. Chi continuerà a farla da padrona sarà Acea che, grazie alla sua presenza storica nel Lazio (Roma e Frosinone) è il primo operatore nazionale nel ciclo idrico con una quota di mercato superiore al 10% e un fatturato di circa mezzo miliardo di euro. Il gruppo, guidato da Andrea Mangoni, è leader anche in Toscana.
Hera è invece la regina dell’acqua emiliana e romagnola nelle province di Bologna, Modena, Ferrara, Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. E vanta, poi, il primato di avere la rete idrica più estesa d’Italia: oltre 25.800 chilometri. Seconda classificata con un network di oltre 15.800 chilometri è l’Acquedotto Pugliese. Il gruppo, che fa capo alla Regione Puglia, ha un giro d’affari superiore ai 300 milioni. Come nelle banche anche nell’acqua non manca il risiko: è il caso della fusione degli acquedotti genovesi.
Dal gennaio 2007 Mediterranea delle acque (MdA), una controllata di Amga, la società che poi si è fusa con Aem Torino per dare vita a Iride, ha preso il posto di Acquedotto Nicolay a Piazza Affari incorporando Genova Acque, Acqua Italia e Acquedotto de Ferrari Galliera. Un’operazione promossa da Piazza Affari a pieni voti: nel 2007 il titolo MdA ha guadagnato oltre il 20%. E il blue gold piace anche ai broker internazionali: Dws (Deustche Bank), Schroeder, Julius Baer hanno creato dei fondi comuni per investire nell’acqua. La loro strategia si basa sul fatto che a livello mondiale il consumo d’acqua non contaminata si triplicherà nei prossimi trent’anni e gli investimenti cresceranno dai 350 miliardi di dollari del 2007 ai 530 miliardi nel 2017. L’acqua potabile diventerà, come l’oro, sempre più rara e sempre più preziosa.
Acqua privata, acqua salata, di Luca Fornovo
I consumi triplicheranno in 30 anni: caccia al business
Se le guerre del Ventesimo secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del Ventunesimo saranno combattute per l’acqua». La profezia fatta più dodici anni da Ismail Serageldin, allora vicepresidente della Banca mondiale, sembra a un passo dall’avverarsi.
Nel mondo è in atto una lotta tra ambientalisti e associazioni no profit contro le lobby dell’acqua (il blue gold, l’oro blu), accusate di una privatizzazione selvaggia delle risorse idriche. Ma da qualche giorno a P Street (Washington) Wenonah Hauter è tornata di buon umore.
Nel suo quartier generale la direttrice della Food & Water Watch, una delle associazioni no profit più attive nel rivendicare l’acqua come un diritto per tutti, sa di poter vincere una battaglia importante per mettere un freno allo strapotere delle multinazionali, come le francesi Veolia e Suez Lyonnaise des Eaux o le britanniche Awg e Kelda. Il Consiglio delle Nazioni Unite sta discutendo sull’obbligo di considerare nel novero dei diritti umani l’accesso all’acqua potabile. Un provvedimento indispensabile se si calcola che nel 2006 trentamila persone sono morte ogni giorno nel mondo per la mancanza d’acqua pulita.
Che il prezzo dell’acqua stia diventando sempre più alto, in tutti i sensi, ce ne siamo accorti anche in casa nostra, dove iniziano a fiorire associazioni, come il movimento per la «ripubblicizzazione dell’acqua», che dallo scorso dicembre ha iniziato a promuovere una serie di manifestazioni in tutta Italia contro la privatizzazione.
Un mondo, quello dell’oro blu, che conta 252 imprese idriche per un fatturato totale di 2.530 milioni di euro l’anno e 580 milioni di investimenti. E con la riforma negli anni Novanta (legge Galli), che ha introdotto gli Ambiti territoriali ottimali (Ato), sempre più imprese idriche (inizialmente tutte pubbliche) si sono decise a imboccare la strada della Spa. Oggi sono salite a sette le sorelle dell’acqua a Piazza Affari: la romana Acea, l’emiliana Hera, la triestino-padovana Acegas-Aps, Mediterranea delle acque, controllata da Iride, l’utility più importante del Nord Ovest, la piemontese Acque potabili e poi la bresciana Asm che, dopo la fusione con la milanese Aem, ha preso il nome di A2A.
Alle magnifiche sette va aggiunto lo storico Acquedotto pugliese (nato nel 1906), che non è presente a Piazza Affari, ma è tra i più grandi acquedotti d’Europa: ha un bacino di 4,4 milioni di utenti. Tutte aziende che con l’acqua fanno affari d’oro. Si va dagli oltre 1.600 euro per ogni 1000 metro cubo di acqua venduta da Hera, ai 1.089 euro dell’Acquedotto Pugliese ai 1.199 di Acea.
Col passare del tempo l’acqua sarà sempre più salata: la media delle tariffe dei 96 piani di ambito esaminati dal Blue Book, il rapporto annuale messo appunto dal centro studi di FederUtility, l’associazione di categoria, è di 1,19 euro al metro cubo. Le previsioni indicano un aumento a 1,32 al 2010 (+10%), per poi salire nel 2020 a 1,51 (+26,9%). Un mega salasso per i consumatori che trova solo in parte giustificazione dalle sete d’investimenti che hanno gli acquedotti: servono 61,6 miliardi da qui al 2020 per ammodernare reti e fognature. Perché il caro-tariffe servirà anche ad alimentare i profitti delle multinazionali tascabili dell’oro blu. Chi continuerà a farla da padrona sarà Acea che, grazie alla sua presenza storica nel Lazio (Roma e Frosinone) è il primo operatore nazionale nel ciclo idrico con una quota di mercato superiore al 10% e un fatturato di circa mezzo miliardo di euro. Il gruppo, guidato da Andrea Mangoni, è leader anche in Toscana.
Hera è invece la regina dell’acqua emiliana e romagnola nelle province di Bologna, Modena, Ferrara, Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. E vanta, poi, il primato di avere la rete idrica più estesa d’Italia: oltre 25.800 chilometri. Seconda classificata con un network di oltre 15.800 chilometri è l’Acquedotto Pugliese. Il gruppo, che fa capo alla Regione Puglia, ha un giro d’affari superiore ai 300 milioni. Come nelle banche anche nell’acqua non manca il risiko: è il caso della fusione degli acquedotti genovesi.
Dal gennaio 2007 Mediterranea delle acque (MdA), una controllata di Amga, la società che poi si è fusa con Aem Torino per dare vita a Iride, ha preso il posto di Acquedotto Nicolay a Piazza Affari incorporando Genova Acque, Acqua Italia e Acquedotto de Ferrari Galliera. Un’operazione promossa da Piazza Affari a pieni voti: nel 2007 il titolo MdA ha guadagnato oltre il 20%. E il blue gold piace anche ai broker internazionali: Dws (Deustche Bank), Schroeder, Julius Baer hanno creato dei fondi comuni per investire nell’acqua. La loro strategia si basa sul fatto che a livello mondiale il consumo d’acqua non contaminata si triplicherà nei prossimi trent’anni e gli investimenti cresceranno dai 350 miliardi di dollari del 2007 ai 530 miliardi nel 2017. L’acqua potabile diventerà, come l’oro, sempre più rara e sempre più preziosa.