Pensando

Domenica 3 febbraio 2008 – Pieve di Colognola ai Colli
MEMORIA DI DAVID MARIA TUROLDO

« L’UOMO DI FRONTE ALLA MALATTIA
ALLA SOFFERENZA E ALLA MORTE »


di Roberto Vinco

L’incontro con Turoldo

Mi sembra importante partire da una piccola testimonianza e spiegare come è nata l’intervista che ho fatto a padre David Maria Turoldo pochi mesi prima della sua morte.

Ho avuto la fortuna di incontrare e di ascoltare parecchie volte padre Davide Maria Turoldo.
Tra i tanti incontri ne ricordo soprattutto due.
Il primo, nel 1971. Ero prete da alcuni mesi.
In un incontro casuale a Sotto il monte mi ha detto testualmente:
“Ricordati che se vuoi essere un vero prete, prima devi diventare un vero uomo”.
E’ una frase che mi ha accompagnato in tutti i miei anni di prete e che mi porto ancora oggi sempre dentro.
Il secondo incontro invece è stato nell’estate del 1991.
Turoldo era ammalato ormai da qualche anno. Era stato operato per un tumore allo stomaco.
Con un gruppo di amici, guidati da don Luigi Adami, siamo andati a trovarlo a Fontanelle. Abbiamo trascorso una giornata con lui.
Anche se un po’ segnato dalla malattia tuttavia era in giornata di vena. Aveva recuperato pienamente il suo vocione e la sua forza interiore.
Abbiamo parlato di molte cose.
Mi ha colpito il fatto che, anche se noi non abbiamo mai accennato alla sua malattia, se non in modo indiretto, con il solito “come stai?”, tuttavia lui continuamente faceva riferimento al suo essere “malato”.
Sembrava quasi che avesse voglia di condividere con altri quel suo dramma che stava vivendo.
Padre David ci ha raccontato il suo primo impatto con il tumore, con il “drago” come lui lo chiamava.
Quando si era accorto che i medici non gli dicevano la verità è andato a parlare direttamente con il Primario che lo aveva operato ed ha preteso di sapere tutto per guardare in faccia anche la malattia.
Ci ha raccontato il suo approccio con la morte.
Il suo vivere da malato. Il suo pregare da malato.
Le sue crisi da malato. Il suo pensare Dio da malato. La sua lotta con la malattia.
Ovviamente non era una conferenza, un discorso ben articolato, ma una chiacchierata tra amici, molto informale, senza alcun schema, proprio all’insegna della spontaneità.
Alcune sue espressioni mi avevano molto colpito.
Tornato a casa mi sono fatto alcuni appunti.
Poi ho pensato di riordinarli sotto forma di intervista e gli ho spedito il tutto per posta.
Dopo qualche giorno mi ha telefonato, mi ha fatto qualche correzione ed ha aggiunto delle osservazioni ad alcune risposte.

L’intervista è stata pubblicata il 1 novembre 1991 sul quotidiano “il Gazzettino” che allora aveva come inserto, “Il nuovo Veronese”, alcune pagine sulla nostra città.
Tre mesi dopo è morto. Precisamente il 6 febbraio del 1992.
Sono passati 16 anni, ma le sue parole profetiche sono ancora di grande attualità.

Partendo proprio dalle “risposte-riflessioni-provocazioni” della intervista a David Maria Turoldo vorrei offrirvi alcune riflessioni maturate in questi anni.
Penso che di fronte alla malattia, alla sofferenza e alla morte ognuno di noi si pone innumerevoli domande.
Abbiamo tutti una lunga fila di perché. Vorremmo tutti almeno trovare qualche risposta.
Ma rimaniamo sempre con la bocca amara.
La parola di un “profeta” come padre David, ci aiuta a pensare, a riflettere, a vivere.

Non ho la pretesa di dare delle soluzioni.
Vorrei semplicemente tentare di offrire dei percorsi di ricerca, di “inventare dei cammini di senso”.
Per parlare della malattia e della sofferenza occorre sempre molto pudore.
Dire una parola su questi interrogativi umani è sempre una sfida.
La tentazione è di fare silenzio e di “rimandare”, non affrontare il problema.

Ma tra il “non dire nulla” e l’arroganza di chi pretende di avere “risposte certe e definitive” , c’è sempre lo spazio per “osare la parola”.
Una parola che nasce sempre dal silenzio e dalla meditazione.
Una parola che si inserisce nella inesauribile ricerca per l’umanizzazione dell’uomo.

Nel tentare di parlare della malattia bisogna anche tener presente un aspetto molto importante.
Occorre evitare il pericolo di parlare di malattia e di sofferenza in astratto.

Nella vita non incontriamo la sofferenza astratta, ma donne e uomini che soffrono.
La malattia o la sperimentiamo direttamente sulla nostra pelle o la vediamo nel volto e nel corpo delle persone che ci stanno accanto e che incontriamo nella nostra vita.
Non esiste la malattia, ma la persona malata.
Non ho a che fare con la sofferenza, ma con chi soffre.
Il problema non è la morte, ma colui che muore.

LA MALATTIA COME ESPERIENZA DEL LIMITE

Nel raccontarci il suo primo impatto con la malattia, Turoldo ha sottolineato un aspetto che mi ha molto colpito: “Alle pietose menzogne dei medici, ho preferito la verità. Con il cancro ho imparato a lottare e a convivere”.
La reazione di Turoldo di fronte alla malattia è molto diversa dall’atteggiamento che vediamo tra la gente di oggi nella vita di tutti i giorni.

Oggi respiriamo tutti una cultura che cerca di esorcizzare la malattia, la morte, la sofferenza.
Della morte non se ne parla. Il malato lo releghiamo all’ospedale.
Alla sofferenza meglio non pensare.
Se da una parte si cerca di rimuovere ogni discorso sulla morte, dall’altra la morte è diventata uno spettacolo.
Attraverso la televisione la morte entra nelle nostre case e viene trasformata in uno spettacolo per soddisfare la curiosità morbosa della gente.
In questo clima, spesso di fronte alla malattia ci si sente soli, incapaci di affrontarla e di gestirla.

Non sappiamo più né accettare né ascoltare la sofferenza che è in noi.
Nessuno ha più il tempo, la voglia, la pazienza di fermarsi accanto ad una persona che soffre, una persona sola, chi sta vivendo un momento di sconforto o di depressione.

Eppure tutti siamo coscienti ed abbiamo sperimentato che l’uomo è anche homo patiens.
Il dolore ci segna tutti.
E’ una esperienza di tutti.
Una esperienza che può distruggerci, ma che può anche aprirci all’umano.

La malattia ti costringe a prendere coscienza di quello che sei.
Sei fragile. Sei limitato. Non sei onnipotente.

Il malato vive una situazione di debolezza radicale.
Non solo a livello fisico, ma anche interiore, psichico, affettivo.
Nella malattia vanno in crisi tutte le relazioni: con se stessi, con gli altri, con le cose, con Dio.
Spesso si cade nell’errore di vivere la vita come una “proprietà”.
La malattia ti fa prendere coscienza che la salute non è una cosa ovvia, non è in mio potere.
Quindi la malattia può diventare anche possibilità di ritrovamento della verità dell’esistenza.
Il primo processo importante che ti chiede la malattia è quello di incominciare ad imparare ad accettare il tuo limite, la tua impotenza, la tua debolezza.

LA MALATTIA: LUOGO DI INCONTRO E DI RELAZIONI

L’intervista a Turoldo non è nata con una serie di domande già preparate e delle risposte. E’ stata una chiacchierata tra amici.
Mentre Turoldo ci raccontava l’esperienza della sua malattia, pensavo alla mia esperienza di prete accanto ai malati. Mi sono sempre sentito molto in difficoltà al riguardo.
Quando mi trovo di fronte ad un malato terminale….
Quando sono accanto a qualcuno al quale è morta una persona cara….
Non so mai cosa dire….
Ho chiesto a Turoldo se poteva suggerirmi qualche consiglio.
Guardandomi intensamente, dopo qualche istante di silenzio, con quella sua stupenda voce baritonale mi disse: “ …..Fai silenzio! Le parole non servono. L’unica cosa importante è… esserci!”

La malattia può diventare luogo di incontro e di relazioni.
Il malato è una persona che ha bisogno degli altri.
Chi sta soffrendo è sempre in una condizione di debolezza e di inferiorità.
Dipende in tutto dagli altri.

Stare accanto al malato, visitare il malato, richiede sempre una grande delicatezza umana ed una profonda sensibilità.
Il problema non è se visitare il malato o no.
Il vero problema è “come” visitare il malato.

Visitare vuol dire incontrare.
Incontrare vuol dire ascoltare.
Ascoltare vuol dire lasciare che l’altro possa essere pienamente se stesso, anche nel suo lamento, nella sua ribellione.
Vuol dire lasciarsi guidare anche dal suo silenzio.
Ascoltare vuol dire accoglierlo, vuol dire fargli spazio, vuol dire entrare in “empatia”.
Lasciarsi coinvolgere dalla sua situazione. Mettersi dalla sua parte.
Ascoltare veramente vuol dire aprirsi e farsi carico della sofferenza dell’altro.

Talvolta più che con le parole bisogna imparare a parlare con lo sguardo.
Certi sguardi sono molto più eloquenti di tanti discorsi.

DIO E LA SOFFERENZA

C’è un altro aspetto che la malattia mette profondamente in crisi.
E’ il mio rapporto con Dio.
Se c’è una cosa in più che il cristiano ha nella malattia è la propria crisi di fede.
Di fronte alla malattia anche la mia fede in Dio è messa duramente alla prova.
Quante domande per chi crede.
Perché Dio permette tanta sofferenza? Perché ha mandato proprio a me la malattia?
Perché la sofferenza di tanti innocenti?

La domanda: “perché il male?”, accompagna tutta la storia dell’uomo e della filosofia.
Il grande filosofo contemporaneo Paul Ricoeur, che ha dedicato parecchie riflessioni al problema del male, nell’interessante libretto “Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia”
parla ”dell’enigma del male e dell’irriducibile sofferenza”.

E’ importante sottolineare che la Bibbia racconta il male, lo descrive, ma non ne spiega l’origine.
Anche la tradizione cristiana non dà alcuna risposta sull’origine del male.
Il male resta un mistero.
E’ proprio su questo rapporto tra Dio e la malattia che alcune osservazioni di Turoldo mi hanno fatto pensare.
“E’ impensabile - dice Turoldo - che Dio voglia il cancro. E’ impossibile che Dio abbia a che fare con la mia malattia. Se è lui che me lo ha mandato, non posso curarmi, perché sarebbe come andare contro la sua volontà”.

Rispetto al problema del rapporto tra Dio, la malattia e il dolore penso che molti cristiani, molti di noi, abbiano una gran confusione.
E questo soprattutto a causa di una certa educazione religiosa che abbiamo ricevuto.
Purtroppo ancora oggi di fronte a dei malati o in occasione di funerali sentiamo delle vere e proprie bestemmie teologiche.
Si sentono ancora spesso certe espressioni come queste:
  • “E’ Dio che ha voluto la sua morte e lo ha preso con se”.
  • “E’ Dio che attraverso la tua malattia vuole metterti alla prova perché tu possa convertirti”.
  • “L’Aids è un castigo di Dio”.
Sono frasi che avvalorano più l’immagine di un Dio contro l’uomo, che l’immagine di un Dio misericordioso.
La teologa e filosofa Dorothee Solle nel suo bel libro Sofferenza parla addirittura di “sadismo teologico”.
Purtroppo tra molti credenti serpeggia ancora una certa “spiritualità doloristica”.
Bisogna invece fare attenzione perché c’è il rischio di creare l’ immagine di un Dio perverso e sadico, che addirittura si compiace della sofferenza che l’uomo patisce.
Ma come può un Dio che è Padre compiacersi in ciò che sfigura e devasta una persona?
Credo che tutti abbiamo bisogno di purificare la nostra immagine di Dio.
Dobbiamo continuamente chiederci: ma in quale Dio crediamo?

IL DIO DI GESU’ CRISTO

Il cristiano crede nel Dio della Bibbia, nel Dio di Gesù Cristo.
E’ attraverso Cristo che io incontro Dio.
E che cosa ci dice Gesù di Dio?
Gesù non ci parla mai di un Dio onnipotente, un Dio degli eserciti, un Dio violento.
Gesù ci parla invece di un Dio che è Padre, che accoglie, che perdona, che è tenerezza, che sa aspettare, che è paziente.
Per il cristiano, Gesù Cristo è Dio che è morto in croce.
Il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo è un Dio che soffre, è un Dio che piange, è un Dio che sente il nostro lamento.
E’ un Dio sempre in “esodo”. Un Dio che cammina accanto a noi, che lotta con noi.

La morte di Cristo non è stata come la morte di Socrate. La morte di un uomo rassegnato e impassibile.
Di fronte alla morte, Cristo grida e urla il suo dolore e la sua disperazione.

In quell’urlo possiamo vedere la richiesta di chiedere al Padre, a Dio, che ci sia vicino nel momento del dolore. Che ci stia accanto per aiutarci a combattere insieme il male e cercare di vincerlo.
“Dio- dice Bonhoeffer- non ci vuole eterni bambini, ma ci vuole adulti e responsabili”.

Il Dio di Gesù Cristo non è il Dio onnipotente, ma il Dio im-potente.
E’ il Dio che ci salva non attraverso la sua onnipotenza, ma attraverso l’amore, la misericordia.
E’ il Dio che ci chiede di accogliere la sua compagnia e la sua forza accanto alla nostra fragilità, alla nostra impotenza, per poter insieme trasformare il male in una occasione d’amore.

Il cristiano non conosce nessuna strada per aggirare il dolore.
L’unica strada è quella di attraversarlo, non da solo, ma insieme con Dio.

Il cristiano deve continuare a raccontare a tutti, che c’è sempre una speranza, che il dolore e la morte non sono l’ultima parola, che c’è sempre una possibilità di vita.

I momenti drammatici di solitudine, di crisi di fede, non sono i momenti dell’abbandono di Dio, ma i momenti del “nascondimento” di Dio.
L’importante è non perdere mai la speranza.
Chi sa seguirlo e cercarlo sicuramente lo ritrova.

Il cristiano deve imparare da Cristo non solo a purificare la sua immagine di Dio, ma anche come vivere l’esperienza della sofferenza, della morte e come stare accanto al malato.

GESU’ E I MALATI

Gesù di fronte ai malati “prova compassione”. Si commuove.
Sente propria la loro sofferenza.

Gesù non ha mai predicato la rassegnazione.
Ha invece sempre combattuto la malattia e la sofferenza.
Ha sempre cercato di curare, di guarire, di aiutare, di consolare.
Non dice mai… che la sofferenza avvicina maggiormente a Dio.
Non chiede mai al malato… di offrire la propria sofferenza a Dio.

Gesù con i sofferenti percorre un cammino.
Spende forze, energie, tempo e lascia agire la forza di Dio.

Con chi soffre bisogna fare insieme un cammino di umanizzazione.
Come ha fatto Cristo così anche il cristiano deve lottare e resistere alla malattia.

LA MALATTIA E LA PREGHIERA

Rispetto al rapporto tra malattia e Dio, Turoldo ci offre anche un altro spunto interessante di riflessione.
Credo che tutti noi, in certi momenti di sofferenza ci siamo rivolti a Dio con la preghiera. Credo che sia naturale pregare Dio perché mi guarisca.

Su questo Turoldo va decisamente contro corrente e ci fa molto pensare:

“Io non penso – dice Turoldo - che sia giusto pregare perché Dio mi guarisca.
Perché Dio dovrebbe guarire me e non il bambino handicappato?”
“Io prego Dio perché mi dia la forza di sopportare il dolore e di far fronte alla morte con la stessa forza di Cristo”

Nel Getsemani Gesù prega il Padre che lo liberi da quell’ora.
E aggiunge subito…”non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu”.

E’ difficile non pregare per la propria guarigione.
Spesso è la stessa liturgia che ci invita a farlo.
Durante l’eucarestia, prima della comunione recitiamo: “Signore non sono degno che tu entri dentro di me, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato… guarito”.
Non chiedo al Signore che mi guarisca in modo egoista, ma che la sua volontà sia fatta “come in cielo così in terra”.
Desiderare di guarire è umano. Ed a Dio posso chiedere un desiderio umano.
La preghiera di domanda è il riconoscere il mio limite, il mio essere nel bisogno, e l’accogliere la salute nello spazio del dono e della gratuità da parte di Dio.

Al cristiano non è chiesta la rassegnazione.
La malattia è un male e ad essa bisogna resistere.
Sia in Giobbe, sia nei Salmi troviamo spesso il linguaggio del lamento e della protesta.
La preghiera di protesta fa parte della lotta contro la malattia ed esprime la ricerca di senso di ciò che appare un mistero incomprensibile.
L’uomo deve gridare il suo scandalo di fronte al male.
Il malato deve dire: il male offende la mia dignità, offende la mia vocazione, il mio destino.
E’ assurdo pensare che la volontà di Dio sia che uno soffra e muoia.
Bisogna chiedere a Dio la forza di continuare ad amare nonostante la malattia.

Spesso si sente ancora dire: nella preghiera offri a Dio la tua sofferenza.
Come può Dio gradire come offerta ciò che disumanizza?
Gesù non ha offerto le sue sofferenze al Padre, ma ha offerto se stesso.
Gesù ha fatto della sua sofferenza e della sua morte un atto d’amore.

Il profeta Osea ci ricorda che: “A Dio è gradito l’amore e non il sacrificio” (6,6).
Non è la sofferenza che salva, ma l’amore.
Io devo offrire a Dio non la mia sofferenza, ma quello che io sono diventato attraverso la sofferenza, cercando di darle un senso attraverso l’amore.
Quindi devo offrire me stesso, la mia fragile fede, la mia sete di speranza,
la mia fatica ma anche la mia gioia di amare in modo gratuito.
E’ la passione dell’amore che può dar senso alla passione del soffrire.

Vorrei accennare brevemente un ultimo aspetto del nostro vivere la relazione con il malato.
Nel famoso brano del Vangelo di Matteo (25,31-46) dove viene raffigurato il giudizio finale, troviamo un messaggio piuttosto sconcertante.
Infatti Gesù dice: “…ero malato e mi avete visitato…”.

Il Cristo si identifica non con colui che va a visitare il malato, ma con il malato stesso.
Il malato è sacramento di Cristo. E’ presenza di Cristo.
Quindi ogni volta che vado a visitare un malato, sono io che, attraverso il malato, sono visitato da Dio.

Pienamente cosciente di quanto sia delicato e difficile parlare di questi argomenti, termino questa breve riflessione con le stesse parole di Hans Jonas.
Il grande pensatore contemporaneo conclude la sua interessante conferenza su “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” dicendo che: “…di Dio si può soltanto balbettare”.
Noi aggiungiamo non solo di Dio, ma anche del male, della malattia, della sofferenza e della morte.