Democrazia forte se è in forma
di Michele Ainis
Dopotutto è una questione di modi, di forme. E dopotutto la democrazia non è che una modalità procedurale, diceva Hans Kelsen. Quindi una forma, o se si vuole un rito. Il guaio è che in quest'ultimo torno d'anni ce ne siamo un po' dimenticati. O meglio: c'è sempre una forma al centro del nostro bisticcio collettivo, però non ce ne accorgiamo, non ci facciamo caso. E allora non è del tutto inutile rinfrescarci la memoria. Poi magari continueremo a dividerci lo stesso, ma almeno comprendendo che cosa ci divide.
In primo luogo, conta o non conta il mandato elettorale? E se conta, perché mai dovremmo consentire a un giudice - dall'ultimo pm al presidente della Corte costituzionale - di sparigliare il voto popolare a colpi di sentenza? A questa domanda le democrazie rispondono che la sovranità appartiene al popolo, il quale tuttavia la esercita (come afferma l'articolo 1 della nostra Carta) «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Insomma perfino la fonte della sovranità obbedisce a una sua forma, a un modello prestampato. Perché questa diffidenza verso il popolo votante? Perché senza un anticorpo normativo spalancheremmo le porte alla dittatura della maggioranza di cui parlava Tocqueville, sacrificando i diritti delle minoranze; e perché il verdetto popolare non è infallibile, non è l'oracolo d'un Dio. D'altronde nel 1933 Hitler conquistò il potere sulle ali di un'elezione vinta l'anno prima con il 37,4% dei consensi, 13,745 milioni di voti. Ma anche la pagina più celebre della storia - la crocifissione di Gesù - venne incisa da un infausto verdetto popolare. «Chi volete libero, Gesù o Barabba?» chiese Pilato alla folla dei giudei. E la folla rispose: «Barabba».
Da qui l'esigenza di rendere indisponibili le regole del gioco all'arbitrio degli stessi giocatori, attraverso la rigidità della Costituzione. Da qui la necessità di formare un corpo di custodi, di magistrature indipendenti. Da qui, insomma, l'esigenza di proteggere la democrazia: esigenza che è alla radice del costituzionalismo, ossia di quel sistema dove non è il re che fa la legge, ma è la legge che fa il re. Sicché sbuca fuori un'altra forma, che questa volta indossa l'abito legislativo. Ma neanche in questo caso si tratta di una forma vuota, d'una formalità senza sostanza. La sua sostanza si condensa viceversa in un principio cardine dello stato di diritto, quello che ci rende eguali al cospetto di Sua Maestà la Legge. C'è un passo, nelle Supplici di Euripide, dove questo concetto viene espresso nel modo più eloquente. «Una volta scritte le leggi, chi è debole e chi è ricco hanno eguale diritto. È lecito ai più deboli, se sono accusati, rispondere alla pari di chi se la passa bene: e il più piccolo vince il grande, se ha ragione».
È per queste specifiche ragioni che la Consulta ha bocciato il lodo Alfano, perché vi s'adottava la forma della legge tradendo l'eguaglianza di cui la legge è ancella. Domani può succedere di nuovo alla ghigliottina predisposta dal governo per accorciare la durata dei processi, dato che essa tratta in modo diseguale le diverse fasi del giudizio, e dato inoltre che fa rotolare alcune teste, lasciando ben salde sul collo le teste degli altri imputati. E meno male che almeno in questo caso la maggioranza sta usando la forma della legge, anziché quella ormai inflazionata del decreto. Giacché, di nuovo, non è affatto irrilevante scegliere l'una o l'altra forma: i decreti s'apparecchiano nella cucina del governo, dove la minoranza non ha accesso. Sarà per questo che il loro abuso ha finito per compattare le varie opposizioni in Parlamento, come sempre capita agli oppressi quando c'è un unico oppressore.
Qui però s'affaccia l'ennesima obiezione contro l'impero delle forme. Questo perché - si dice, e sono in molti a dirlo - l'oppressore è invece un oppresso, è vittima d'una regola costituzionale che non corrisponde più alla realtà dei fatti. Anzi: può dubitarsi che quella regola suoni tutt'oggi vincolante, che insomma la vera Carta sia ancora quella scritta, e non invece la Costituzione "materiale" che ormai da tempo ne ha preso le veci. Questa dissonanza d'opinioni è la più devastante, perché revoca in dubbio le basi stesse della nostra convivenza. Colpa d'un sistema che non ha saputo correggere la Costituzione scritta per adeguarla alla nuova stagione, o che non ha saputo opporsi alla nuova stagione in nome della Costituzione scritta.
Nel frattempo convivono due Costituzioni, l'una nemica dell'altra, con il risultato che ciascuno fa un po' come gli pare. È l'altalena, per esempio, fra il ruolo del presidente del Consiglio come primus inter pares (secondo l'articolo 95 della legge fondamentale) ovvero super pares, per usare la definizione dell'avvocato Pecorella. Ma gli esempi sono più numerosi dei grani d'un rosario, dato che in Italia lo scarto tra diritto e fatto, tra forma e sostanza normativa, è diventato patologico. Sicché ci comportiamo come Tiberio nell'antica Roma: a quel tempo era vietato mandare a morte le fanciulle vergini, e allora lui le faceva violentare dal boia un minuto prima dell'esecuzione.
Non che alle nostre latitudini la democrazia abbia ceduto il passo al dispotismo di Tiberio. Però faremmo bene a ricordarci che ogni stato di diritto esige il rispetto delle forme, e che questo stesso stato si rispecchia nel suo insieme in una forma ben precisa. Quale? Non certo quella d'un piedistallo eretto per ospitarvi il busto del sovrano. No, è un suppellettile più povero, più umile: diciamo uno sgabello con tre gambe. Questo perché la decisione politica non ha un solo canale d'espressione ma ne ha tre, che si compensano e si equilibrano a vicenda. C'è, ovviamente, il canale del governo; ma c'è anche il canale della democrazia rappresentativa, che trova la sua sede più solenne nel Parlamento; e c'è il canale della democrazia diretta. Il problema è che in Italia, qui e oggi, due canali su tre sono ostruiti, o se preferite lo sgabello ha due gambe rotte. Sicché casca per terra, urge trovare un falegname.