L'esempio di mio padre che porto nel cuore
di Benedetta Tobagi
Non ho ricordi di mio padre da vivo: è morto troppo presto. In compenso sono cresciuta assediata dall’immagine pubblica di Walter Tobagi.
A volte si trattava di rappresentazioni vere e proprie: ricordo il busto di bronzo inaugurato nel palazzo di un ente locale, che da piccola trovavo terrificante, oppure un ancor più terribile ritratto a olio di cui un artista sconosciuto aveva voluto omaggiare il nonno Tobagi. Era ricavato da una fotografia non molto riuscita di mio padre seduto alla macchina da scrivere.
Dalla vecchia Olivetti usciva un lunghissimo foglio di carta bianco avorio che andava ad avvolgersi attorno al suo collo: non so se nelle intenzioni dell’autore dovesse simulare una stola vescovile, un regale ermellino o un cappio. In ogni caso, meglio lasciar perdere.
Essere al centro di una tragedia pubblica aveva molti risvolti spiacevoli. Primo, mi collocava in una scomoda posizione di visibilità, del tutto indesiderata. Secondo, avevo l’impressione che l’invadenza di questa immagine pubblica, anziché avvicinarmelo e aiutarmi a conoscerlo, non facesse che spingere mio padre un po’ più lontano da me, come quando insegui un pallone tra le onde.
Chi era davvero Walter Tobagi? Perché lo hanno ucciso?
Mi ha confortato il fatto di non trovarmi sola nella difficoltà di dare un senso agli eventi. Che un giornalista progressista come lui sia diventato obiettivo dei terroristi di sinistra desta a tutt’oggi sconcerto. Ritrovo l’eco delle perplessità della mia infanzia nelle parole di un ex terrorista tedesco della Raf, che, guardando all’esperienza dei «compagni» italiani, si chiede perché mai, mentre in Germania si colpivano capitani d’industria ed ex nazisti, a sud delle Alpi sotto il piombo dei sedicenti rivoluzionari caddero più spesso i riformisti.
Con gli anni, gli elementi materiali del contesto diventavano per me più intelligibili, ma si facevano avanti problemi di comprensione più sottili e insidiosi.
Vi è un fenomeno caratteristico che interferisce con la memoria delle vittime del terrorismo (ma il discorso può essere esteso anche ai «cadaveri eccellenti» delle mafie): una vita intera viene risucchiata, come in un buco nero, dalla potenza di una fine tanto drammatica. L’identità della vittima è schiacciata. Quel che resta è solo il simulacro scintillante, ma vuoto, dell’eroe; nel mio caso, un martire della libertà di stampa. Tutto ciò rende assai più difficile capire chi fosse realmente il defunto e tracciare un bilancio obiettivo della sua attività.
***
In una professione in cui tutti urlano, arringano e calcano i toni, mio padre parlava piano, a voce bassa (...). La voce pubblica di mio padre riposa tutta intera nei suoi articoli. Noto una fraseologia ricca di espressioni come: «A me pare», «Si potrebbe convenire», «Se guardiamo ai fatti degli ultimi mesi», «Se consideriamo»: i tecnici li definiscono «atti linguistici di cortesia positiva». Non ha il gusto del paradosso, predilige il tono discorsivo, l’ironia velata. È bravo, a raccontare. Le coloriture efficaci sono divenute una cifra stilistica, come gli riconobbe anche Indro Montanelli. Negli articoli, una galleria di ritratti, freschi ed efficaci come schizzi a china.
Papà la sente tutta la responsabilità di parlare a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Le sue convinzioni circa i compiti del giornalista si concentrano nella massima: «Poter capire, voler spiegare». Si sente vicino a quella che Bocca definisce la funzione maieutica della stampa: «Aiutare la gente a tirar fuori quello che ha dentro», informare con l’intento di fornire al lettore gli strumenti per ragionare e chiavi interpretative per intendere la realtà.
***
Scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verificabili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informazione. Questo tratto accomuna molte vicende di terrorismo. Occorre cautela e profondo scrupolo, nel muoversi su terreni tanto scivolosi. In Italia manca davvero la verità intorno a troppe morti; trovo imperdonabile abusare della buona fede di tante persone indignate senza motivazioni più che solide.
L’unico risvolto positivo in questa vicenda sfibrante sta nel fatto che mi ha portato a inciampare senza volerlo nell’unica vera lacuna nell’inchiesta sulla morte di mio padre.
Questa volta la P2 c’entra sul serio, anche se non si capisce bene in che termini.
Il volantino di rivendicazione è stato analizzato in ogni maniera possibile, eppure, in tanto clamore, è passato sotto silenzio un fatto venuto alla luce nel marzo del 1981: copia del famigerato dattiloscritto fu ritrovata nientemeno che dentro alla valigia sequestrata nella ditta Giole di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo. Stava in una busta sigillata con la dicitura, molto generica, «Rizzoli - lettera Brigate Rosse», insieme ad altre cartelle selezionate di documenti riservatissimi, riguardanti tra le altre cose i piani di ricapitalizzazione e riassetto proprietario del gruppo Rizzoli - Corriere della Sera, elaborati nei primi mesi del 1980 da Bruno Tassan Din con Licio Gelli e l’avvocato Umberto Ortolani.
Vengo a conoscenza di questo fatto grazie alla meticolosità del senatore Flamigni, che lo menziona nel suo libro sulla P2, Trame atlantiche.
Provo stupore: in mezzo a tante polemiche, proprio sul volantino e sulla loggia P2, basate su indizi e suggestioni, com’è possibile che una notizia del genere non sia mai emersa? Temevo che la mia reazione nascesse da ingenuità. Quando ho visto le espressioni di sorpresa ogni volta che ho mostrato i documenti a persone assai più esperte e smaliziate di me, ho cominciato a preoccuparmi.
Lo stupore cresce quando scopro che la magistratura lo seppe subito. Il giudice istruttore Giuliano Turone, responsabile della perquisizione con Gherardo Colombo, aveva girato il materiale al collega milanese incaricato dell’istruttoria sull’omicidio Tobagi, Giorgio Caimmi: ritrovo la lettera d’accompagnamento, controfirmata per ricevuta in data 14 aprile 1981.
Il magistrato Armando Spataro mostra sincera sorpresa: «Non ne sapevo niente, questa sembra effettivamente una lacuna», ammette. Mi mette subito in contatto col giudice istruttore. Caimmi se la ricorda, invece, la busta, ma all’epoca era impegnato a tempo pieno nel verificare con riscontri certosini le dichiarazioni dei pentiti. Caimmi si era occupato fino ad allora di cause di fallimento, dopo l’omicidio Galli dovette cominciare a occuparsi di terrorismo e gli toccò istruire il processo-monstre. Del delitto Tobagi, ripete, si sapeva già tutto. «Non valutai che fosse un elemento rilevante», e la busta finì chissà dove. Nel fascicolo non riesco a trovarla. Mi viene spontaneo di obiettare che nel maggio dell’81 sulla vicenda P2 era caduto il governo, ma serve a poco. Spataro ha un’ironia triste negli occhi mentre riflette ad alta voce: «Se anche avessimo voluto seguire la pista, cos’avremmo potuto fare, interrogare Gelli». Già.
Poco dopo, il tribunale di Milano fu obbligato a trasmettere l’inchiesta penale sulla loggia deviata — e tutti i documenti relativi — a Roma, dove di fatto si arenò. A settembre dello stesso anno, venne costituita un’apposita commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Tina Anselmi. Tra i membri, salta all’occhio il socialista Salvo Andò, uno dei deputati condannati per diffamazione per la campagna stampa contro i magistrati milanesi per la verità sull’affaire Tobagi, esplosa nel conflitto istituzionale del 1985 (nel 1987 ai reati fu applicata l’amnistia in grado di appello con la conferma del risarcimento dei danni disposto dal Tribunale in primo grado). Usarono ogni argomento possibile, tranne questo. Forse, come altri commissari, non spese troppo tempo sui documenti acquisiti dalla commissione, nemmeno sul corpus centrale. Oppure tacque, e non dovrei stupirmene: intorno alla loggia P2 sembra vigere da sempre la consegna di minimizzare e riportare tutto al silenzio, al più presto. La commissione fece un lavoro straordinario, considerando l’enormità del compito. Quella particolare busta non poté essere oggetto di analisi specifiche.
È cominciata così l’ultima piccola odissea per ricostruire la storia di come e perché, tra i pochi e selezionati documenti che il maestro venerabile aveva impacchettato per portarseli via, ci fosse anche il volantino di rivendicazione della «XXVIII Marzo».
Sul come gli arrivò, c’è l’imbarazzo della scelta, tanto pervasiva era la presenza della P2 nel gruppo Rizzoli e al «Corriere». Mi sono concentrata allora sulle ragioni.
«C’è un metodo. La logica che guida Gelli nella costruzione del suo archivio è quella del ricatto e della disinformazione», mi spiega Giuliano Turone. È un uomo gentile, colto, limpido. In mezzo a tanti fantasmi, è uno di quegli incontri che mi rasserenano. Mi serve a ricordarmi che l’Italia è fatta anche di tante persone come lui. Lo conferma il magistrato Elisabetta Cesqui, che riprese in mano l’inchiesta arenatasi, purtroppo con scarsa fortuna. Se la ricorda bene, la busta: «Mi colpì che stesse in mezzo a quei documenti sulla ricapitalizzazione. Appariva incongrua». Rifletto sul contesto. I piani finanziari segreti conservati nella valigia furono tracciati a partire dai primi mesi del 1980. Il gruppo versava in condizioni disastrose per gli interessi passivi, gravato da testate deficitarie come «L’Occhio» e il «Corriere d’Informazione». Il direttore generale Tassan Din però rifugge ogni decisione riguardo a chiusure e licenziamenti: il sindacato del gruppo Rizzoli è forte e fa molta paura, può paralizzare il «Corriere» per giorni, provocando perdite ingenti (...).
Mi tornano in mente i discorsi di mio padre, così vituperati: batteva sulle piccole grandi cose concrete, sui presupposti della libertà d’informazione, sulla necessità di affrontare sacrifici per avere testate dal bilancio sano, che non diventassero facile preda di «padrini» politici e finanziari. Per tenere a bada il sindacato poligrafici Tassan Din ricorre ad Adalberto Minucci, responsabile dell’informazione del Pci. Scelte vitali per il risanamento vengono colpevolmente rimandate, si batte la strada di manovre finanziarie illecite. Ai dirigenti allarmati che lo invitano a tagliare i rami secchi, Angelo Rizzoli replica: «Sto trattando la ricapitalizzazione del gruppo, non posso permettermi un Vietnam in azienda».
La loggia esercitava la propria influenza alternando le lusinghe all’intimidazione. Forse, quel documento tra gli incartamenti Rizzoli tradisce il progetto di utilizzare i dubbi suscitati da quella morte provvidenziale per intimidire un po’ quel sindacato rosso così poco governabile, un aiuto per tenere a bada i temuti «vietcong» con una manovra diversiva. Accanto alle seduzioni del direttore generale poteva essere funzionale far cadere sui sindacati l’ombra di un’accusa infamante: aver istigato, assistito, o quantomeno ispirato, l’omicidio di Tobagi.
***
Il mare d’inverno è il mio rifugio. Ci vado da sola. Quando sono stanca, confusa, l’acqua e la luce mi calmano sempre. Guardando l’orizzonte, prima o dopo, penso sempre a papà. Mi sembra che sia più vicino. Chissà come mai: dall’Umbria a Milano, mare niente.
Poi ho capito. Una coincidenza curiosa come una conchiglia integra, perfetta, sbucata dalla sabbia. Me l’ha regalata Marilisa, quasi una zia, mentre mi portava in macchina alla stazione dopo una breve visita.
Le chiedo a bruciapelo: «Papà preferiva il mare o la montagna?»
«Il mare. Andare in montagna gli piaceva per la compagnia, ma lui amava di più il mare. Mi ricordo che una volta ha detto che gli piaceva soprattutto il mare d’inverno, quando è tutto vuoto, e si possono sentire le voci delle persone sulla spiaggia, in lontananza».
Ho pianto in silenzio mentre l’auto percorreva i tornanti al buio.
Un altro posto dove vado da sola è il cimitero. Anche lì mi sento in pace. Papà riposa nel paese d’origine della mia nonna materna, un cimitero piccolo, raccolto, lontano dai rumori, a misura d’uomo. Ci sono tanti alberi. Non è un posto triste. Anche le lacrime, qui, sono un sollievo.
Quando mi succede qualcosa di importante, ritaglio il tempo per andare a dirlo a mio padre, come farei se fosse vivo e abitassimo in due città diverse.
Gli parlo. A volte parlo sul serio, seppure a bassa voce, per paura di esser presa per pazza. Bisogna provare per capire che fa una grossa differenza, lasciar uscire la voce. È un rito dolce e liberatorio.
Quando vado a trovare papà al cimitero mi piace portargli una rosa, una sola, ma molto bella. In una delle infinite tonalità del rosa. La scelgo con cura prima di partire, ci metto del tempo, è importante.
Non la lascio nel vaso, ma la incastro nella grata di ferro battuto perché sia più vicina alla sua fotografia. La lascio lì accanto, come una carezza.
A volte si trattava di rappresentazioni vere e proprie: ricordo il busto di bronzo inaugurato nel palazzo di un ente locale, che da piccola trovavo terrificante, oppure un ancor più terribile ritratto a olio di cui un artista sconosciuto aveva voluto omaggiare il nonno Tobagi. Era ricavato da una fotografia non molto riuscita di mio padre seduto alla macchina da scrivere.
Dalla vecchia Olivetti usciva un lunghissimo foglio di carta bianco avorio che andava ad avvolgersi attorno al suo collo: non so se nelle intenzioni dell’autore dovesse simulare una stola vescovile, un regale ermellino o un cappio. In ogni caso, meglio lasciar perdere.
Essere al centro di una tragedia pubblica aveva molti risvolti spiacevoli. Primo, mi collocava in una scomoda posizione di visibilità, del tutto indesiderata. Secondo, avevo l’impressione che l’invadenza di questa immagine pubblica, anziché avvicinarmelo e aiutarmi a conoscerlo, non facesse che spingere mio padre un po’ più lontano da me, come quando insegui un pallone tra le onde.
Chi era davvero Walter Tobagi? Perché lo hanno ucciso?
Mi ha confortato il fatto di non trovarmi sola nella difficoltà di dare un senso agli eventi. Che un giornalista progressista come lui sia diventato obiettivo dei terroristi di sinistra desta a tutt’oggi sconcerto. Ritrovo l’eco delle perplessità della mia infanzia nelle parole di un ex terrorista tedesco della Raf, che, guardando all’esperienza dei «compagni» italiani, si chiede perché mai, mentre in Germania si colpivano capitani d’industria ed ex nazisti, a sud delle Alpi sotto il piombo dei sedicenti rivoluzionari caddero più spesso i riformisti.
Con gli anni, gli elementi materiali del contesto diventavano per me più intelligibili, ma si facevano avanti problemi di comprensione più sottili e insidiosi.
Vi è un fenomeno caratteristico che interferisce con la memoria delle vittime del terrorismo (ma il discorso può essere esteso anche ai «cadaveri eccellenti» delle mafie): una vita intera viene risucchiata, come in un buco nero, dalla potenza di una fine tanto drammatica. L’identità della vittima è schiacciata. Quel che resta è solo il simulacro scintillante, ma vuoto, dell’eroe; nel mio caso, un martire della libertà di stampa. Tutto ciò rende assai più difficile capire chi fosse realmente il defunto e tracciare un bilancio obiettivo della sua attività.
***
In una professione in cui tutti urlano, arringano e calcano i toni, mio padre parlava piano, a voce bassa (...). La voce pubblica di mio padre riposa tutta intera nei suoi articoli. Noto una fraseologia ricca di espressioni come: «A me pare», «Si potrebbe convenire», «Se guardiamo ai fatti degli ultimi mesi», «Se consideriamo»: i tecnici li definiscono «atti linguistici di cortesia positiva». Non ha il gusto del paradosso, predilige il tono discorsivo, l’ironia velata. È bravo, a raccontare. Le coloriture efficaci sono divenute una cifra stilistica, come gli riconobbe anche Indro Montanelli. Negli articoli, una galleria di ritratti, freschi ed efficaci come schizzi a china.
Papà la sente tutta la responsabilità di parlare a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Le sue convinzioni circa i compiti del giornalista si concentrano nella massima: «Poter capire, voler spiegare». Si sente vicino a quella che Bocca definisce la funzione maieutica della stampa: «Aiutare la gente a tirar fuori quello che ha dentro», informare con l’intento di fornire al lettore gli strumenti per ragionare e chiavi interpretative per intendere la realtà.
***
Scegliendo di montare tasselli poco chiari, si possono tessere trame verosimili, ma non verificabili, oppure riesumare polemiche già consumate contando sulla memoria corta dei mezzi d’informazione. Questo tratto accomuna molte vicende di terrorismo. Occorre cautela e profondo scrupolo, nel muoversi su terreni tanto scivolosi. In Italia manca davvero la verità intorno a troppe morti; trovo imperdonabile abusare della buona fede di tante persone indignate senza motivazioni più che solide.
L’unico risvolto positivo in questa vicenda sfibrante sta nel fatto che mi ha portato a inciampare senza volerlo nell’unica vera lacuna nell’inchiesta sulla morte di mio padre.
Questa volta la P2 c’entra sul serio, anche se non si capisce bene in che termini.
Il volantino di rivendicazione è stato analizzato in ogni maniera possibile, eppure, in tanto clamore, è passato sotto silenzio un fatto venuto alla luce nel marzo del 1981: copia del famigerato dattiloscritto fu ritrovata nientemeno che dentro alla valigia sequestrata nella ditta Giole di Licio Gelli, a Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo. Stava in una busta sigillata con la dicitura, molto generica, «Rizzoli - lettera Brigate Rosse», insieme ad altre cartelle selezionate di documenti riservatissimi, riguardanti tra le altre cose i piani di ricapitalizzazione e riassetto proprietario del gruppo Rizzoli - Corriere della Sera, elaborati nei primi mesi del 1980 da Bruno Tassan Din con Licio Gelli e l’avvocato Umberto Ortolani.
Vengo a conoscenza di questo fatto grazie alla meticolosità del senatore Flamigni, che lo menziona nel suo libro sulla P2, Trame atlantiche.
Provo stupore: in mezzo a tante polemiche, proprio sul volantino e sulla loggia P2, basate su indizi e suggestioni, com’è possibile che una notizia del genere non sia mai emersa? Temevo che la mia reazione nascesse da ingenuità. Quando ho visto le espressioni di sorpresa ogni volta che ho mostrato i documenti a persone assai più esperte e smaliziate di me, ho cominciato a preoccuparmi.
Lo stupore cresce quando scopro che la magistratura lo seppe subito. Il giudice istruttore Giuliano Turone, responsabile della perquisizione con Gherardo Colombo, aveva girato il materiale al collega milanese incaricato dell’istruttoria sull’omicidio Tobagi, Giorgio Caimmi: ritrovo la lettera d’accompagnamento, controfirmata per ricevuta in data 14 aprile 1981.
Il magistrato Armando Spataro mostra sincera sorpresa: «Non ne sapevo niente, questa sembra effettivamente una lacuna», ammette. Mi mette subito in contatto col giudice istruttore. Caimmi se la ricorda, invece, la busta, ma all’epoca era impegnato a tempo pieno nel verificare con riscontri certosini le dichiarazioni dei pentiti. Caimmi si era occupato fino ad allora di cause di fallimento, dopo l’omicidio Galli dovette cominciare a occuparsi di terrorismo e gli toccò istruire il processo-monstre. Del delitto Tobagi, ripete, si sapeva già tutto. «Non valutai che fosse un elemento rilevante», e la busta finì chissà dove. Nel fascicolo non riesco a trovarla. Mi viene spontaneo di obiettare che nel maggio dell’81 sulla vicenda P2 era caduto il governo, ma serve a poco. Spataro ha un’ironia triste negli occhi mentre riflette ad alta voce: «Se anche avessimo voluto seguire la pista, cos’avremmo potuto fare, interrogare Gelli». Già.
Poco dopo, il tribunale di Milano fu obbligato a trasmettere l’inchiesta penale sulla loggia deviata — e tutti i documenti relativi — a Roma, dove di fatto si arenò. A settembre dello stesso anno, venne costituita un’apposita commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Tina Anselmi. Tra i membri, salta all’occhio il socialista Salvo Andò, uno dei deputati condannati per diffamazione per la campagna stampa contro i magistrati milanesi per la verità sull’affaire Tobagi, esplosa nel conflitto istituzionale del 1985 (nel 1987 ai reati fu applicata l’amnistia in grado di appello con la conferma del risarcimento dei danni disposto dal Tribunale in primo grado). Usarono ogni argomento possibile, tranne questo. Forse, come altri commissari, non spese troppo tempo sui documenti acquisiti dalla commissione, nemmeno sul corpus centrale. Oppure tacque, e non dovrei stupirmene: intorno alla loggia P2 sembra vigere da sempre la consegna di minimizzare e riportare tutto al silenzio, al più presto. La commissione fece un lavoro straordinario, considerando l’enormità del compito. Quella particolare busta non poté essere oggetto di analisi specifiche.
È cominciata così l’ultima piccola odissea per ricostruire la storia di come e perché, tra i pochi e selezionati documenti che il maestro venerabile aveva impacchettato per portarseli via, ci fosse anche il volantino di rivendicazione della «XXVIII Marzo».
Sul come gli arrivò, c’è l’imbarazzo della scelta, tanto pervasiva era la presenza della P2 nel gruppo Rizzoli e al «Corriere». Mi sono concentrata allora sulle ragioni.
«C’è un metodo. La logica che guida Gelli nella costruzione del suo archivio è quella del ricatto e della disinformazione», mi spiega Giuliano Turone. È un uomo gentile, colto, limpido. In mezzo a tanti fantasmi, è uno di quegli incontri che mi rasserenano. Mi serve a ricordarmi che l’Italia è fatta anche di tante persone come lui. Lo conferma il magistrato Elisabetta Cesqui, che riprese in mano l’inchiesta arenatasi, purtroppo con scarsa fortuna. Se la ricorda bene, la busta: «Mi colpì che stesse in mezzo a quei documenti sulla ricapitalizzazione. Appariva incongrua». Rifletto sul contesto. I piani finanziari segreti conservati nella valigia furono tracciati a partire dai primi mesi del 1980. Il gruppo versava in condizioni disastrose per gli interessi passivi, gravato da testate deficitarie come «L’Occhio» e il «Corriere d’Informazione». Il direttore generale Tassan Din però rifugge ogni decisione riguardo a chiusure e licenziamenti: il sindacato del gruppo Rizzoli è forte e fa molta paura, può paralizzare il «Corriere» per giorni, provocando perdite ingenti (...).
Mi tornano in mente i discorsi di mio padre, così vituperati: batteva sulle piccole grandi cose concrete, sui presupposti della libertà d’informazione, sulla necessità di affrontare sacrifici per avere testate dal bilancio sano, che non diventassero facile preda di «padrini» politici e finanziari. Per tenere a bada il sindacato poligrafici Tassan Din ricorre ad Adalberto Minucci, responsabile dell’informazione del Pci. Scelte vitali per il risanamento vengono colpevolmente rimandate, si batte la strada di manovre finanziarie illecite. Ai dirigenti allarmati che lo invitano a tagliare i rami secchi, Angelo Rizzoli replica: «Sto trattando la ricapitalizzazione del gruppo, non posso permettermi un Vietnam in azienda».
La loggia esercitava la propria influenza alternando le lusinghe all’intimidazione. Forse, quel documento tra gli incartamenti Rizzoli tradisce il progetto di utilizzare i dubbi suscitati da quella morte provvidenziale per intimidire un po’ quel sindacato rosso così poco governabile, un aiuto per tenere a bada i temuti «vietcong» con una manovra diversiva. Accanto alle seduzioni del direttore generale poteva essere funzionale far cadere sui sindacati l’ombra di un’accusa infamante: aver istigato, assistito, o quantomeno ispirato, l’omicidio di Tobagi.
***
Il mare d’inverno è il mio rifugio. Ci vado da sola. Quando sono stanca, confusa, l’acqua e la luce mi calmano sempre. Guardando l’orizzonte, prima o dopo, penso sempre a papà. Mi sembra che sia più vicino. Chissà come mai: dall’Umbria a Milano, mare niente.
Poi ho capito. Una coincidenza curiosa come una conchiglia integra, perfetta, sbucata dalla sabbia. Me l’ha regalata Marilisa, quasi una zia, mentre mi portava in macchina alla stazione dopo una breve visita.
Le chiedo a bruciapelo: «Papà preferiva il mare o la montagna?»
«Il mare. Andare in montagna gli piaceva per la compagnia, ma lui amava di più il mare. Mi ricordo che una volta ha detto che gli piaceva soprattutto il mare d’inverno, quando è tutto vuoto, e si possono sentire le voci delle persone sulla spiaggia, in lontananza».
Ho pianto in silenzio mentre l’auto percorreva i tornanti al buio.
Un altro posto dove vado da sola è il cimitero. Anche lì mi sento in pace. Papà riposa nel paese d’origine della mia nonna materna, un cimitero piccolo, raccolto, lontano dai rumori, a misura d’uomo. Ci sono tanti alberi. Non è un posto triste. Anche le lacrime, qui, sono un sollievo.
Quando mi succede qualcosa di importante, ritaglio il tempo per andare a dirlo a mio padre, come farei se fosse vivo e abitassimo in due città diverse.
Gli parlo. A volte parlo sul serio, seppure a bassa voce, per paura di esser presa per pazza. Bisogna provare per capire che fa una grossa differenza, lasciar uscire la voce. È un rito dolce e liberatorio.
Quando vado a trovare papà al cimitero mi piace portargli una rosa, una sola, ma molto bella. In una delle infinite tonalità del rosa. La scelgo con cura prima di partire, ci metto del tempo, è importante.
Non la lascio nel vaso, ma la incastro nella grata di ferro battuto perché sia più vicina alla sua fotografia. La lascio lì accanto, come una carezza.
fonte: "il Corriere della Sera" - 2 novembre 2009