Veri cristiani si diventa: nel territorio
di Enzo Bianchi
Viviamo in un’epoca di profondi e rapidi mutamenti, un mondo in cui il più grave smarrimento deriva dal non riuscire a percepire un orientamento chiaro e lineare nell’evolversi delle situazioni e nel modo di collocarsi in esse anche da parte di istituzioni solitamente capaci di fornire senso e direzione all’agire umano. In queste ultime settimane un elemento purtroppo quasi assente nel dibattito mediatico attorno alla chiesa e alla sua presenza nella società italiana è stato quello dei rapporti tra cristiani e territorio vissuti soprattutto attraverso quella entità locale che, con la fine dell’assetto sociale contadino e con l’imporsi della società industriale, ha dovuto cercare – e ancora non ha trovato pienamente – nuove forme per manifestare la collocazione dei cristiani nella polis e per la loro missione: la “parrocchia”.
Il territorio, infatti, non è lo scenario asettico della vita cristiana bensì lo spazio in cui i cristiani ascoltano il mondo – gli uomini e le donne con le loro sofferenze, le speranze e le fatiche; il creato, l’ambiente e la terra... – vivendo la storia senza evasioni, perseguendo responsabilmente il bene comune insieme agli altri uomini ed esercitando la propria responsabilità. Il territorio è il luogo in cui i cristiani sono innestati nella comune vicenda culturale di un popolo e dove devono ogni giorno discernere i “segni dei tempi”, che spesso si manifestano anche come “segni dei luoghi”.
Oggi si è più consapevoli che lo spazio è, insieme al tempo, una coordinata essenziale, che predispone quanto è necessario all’edificazione di una comunità cristiana nella realtà locale: c’è bisogno di uno spazio per credere, di un luogo in cui diventare cristiani, in cui radicarsi e, con un riferimento a un preciso habitat umano, poter vivere la comunità e accrescere la comunione. Il sociologo francese Michel Maffesoli osservava che “come la modernità metteva l’accento sul tempo, la post-modernità mette l’accento sullo spazio-territorio”. Ne consegue che occorre reinventare un legame tra comunità cristiana e territorio, tenendo conto che i concetti di spazio e tempo sono in continuo mutamento, a causa dell’universo di Internet, della cultura soggettivista, della pluralità e della complessità di presenze umane, religiose, etiche ed etniche di cui è composta la polis.
Quali possono essere allora le vie di rinnovamento dei legami necessari alla testimonianza della fede e alla costruzione della comunità cristiana? Il primo compito di un cristiano resta quello di conformare la propria vita umana alla vita umana di Gesù, una vita che ha saputo “narrare” Dio nella storia. Del resto oggi il cammino degli uomini verso la fede non è più quello di qualche decennio fa: un tempo la chiesa nutriva il fedele e lo faceva crescere fino a quando questi, con maturità, faceva propria la fede ereditata dalle generazioni precedenti e accedeva all’adesione a Dio, quindi a Gesù Cristo. Oggi per moltissime persone, anche nei paesi di radicata tradizione cristiana come l’Italia, non è più così: Dio è diventata una parola ambigua e a volte scandalosa, sovente “la chiesa – osservò già quarant’anni fa Joseph Ratzinger – è per molti l’ostacolo principale alla fede”, mentre continua a salire dall’umanità quel grido che l’evangelista Giovanni mette in bocca ai greci saliti a Gerusalemme: “Vogliamo vedere Gesù!”. È un grido che chiede a uomini e donne di mostrare Gesù, facendo vedere la loro vita ispirata dal vangelo e ad esso conformata, testimoniando la prassi di servizio, di amore, di riconciliazione e di libertà vissuta da Gesù. Occorrerebbe allora presentare agli uomini un cammino umano: far vedere Gesù, collocare Gesù in Dio, colui che lo ha inviato, e quindi introdurli progressivamente nella comunità cristiana fino a far loro amare la chiesa.
Nel far questo non ci si dovrebbe fermare a confini stabiliti in precedenza tra comunità cristiana e battezzati non praticanti o addirittura in contraddizione con la fede: il cristiano deve avere in qualche modo una fede anche per quelli che l’hanno più debole e deve sentire questa solidarietà profonda in cui può pulsare la grazia battesimale anche quando non è visibilmente operante. In questo senso un cristiano che cerca di vivere evangelicamente il rapporto con la storia dovrebbe, soprattutto oggi, essere disponibile allo scambio, al confronto, al dialogo all’interno e all’esterno della comunità cristiana: non diffidenza, arroccamento, intransigenza, non lo stare su posizioni difensive, non il cedimento alla tentazione di ripagare con la stessa moneta l’ostilità e il disprezzo da parte della società non cristiana bensì, come diceva Paolo VI, “guardare al mondo con immensa simpatia. Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo.
Inoltre occorre ribadire che i cristiani, proprio perché appartenenti alla città e alla società degli uomini, devono essere soggetti responsabili, e la loro coscienza deve essere l’istanza mediatrice tra fede e azione socio-politica. Noi dovremmo ancora oggi comprendere e progettare la modalità con cui i cristiani, da cittadini veri, leali e solidali con gli altri con-cittadini possono dare il loro contributo alla polis. Non ci deve essere alcuna diffidenza o contraddizione rispetto all’appartenenza alla società e alla cittadinanza: essi sono realmente cristiani, discepoli del Signore Gesù Cristo, se si lasciano ispirare dal Vangelo e se, attraverso l’istanza mediatrice della loro coscienza, danno il loro contributo sotto la forma dell’azione politica la quale resta, come già diceva Pio XI, “il campo della più vasta carità”. Come ha più volte ricordato anche Benedetto XVI, “la chiesa non è né intende essere un agente politico”, ma spetta ai cristiani un doveroso impegno in ordine all’umanizzazione della convivenza civile e alla realizzazione di una società sempre più segnata da giustizia, rispetto della dignità della persona, pace. Dunque per la chiesa vi è una funzione “mediata” nei confronti della società, soprattutto attraverso la purificazione della ragione e il risveglio di forze morali; per i fedeli laici vi è una funzione “immediata” nel partecipare in prima persona alla vita pubblica senza “abdicare – sono parole dell’enciclica Deus caritas est – alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere il bene comune”.
fonte: La Stampa, 20 settembre 2009