Il mondo è diventato più cattivo
di Gian Enrico Rusconi
Siete cagne dell’Occidente». Non dimentichiamo questo insulto rivolto alle giovani donne afghane. Protestavano contro un articolo della legge sul diritto di famiglia, da esse giustamente considerato una forma di legalizzazione dello stupro. Non declassiamo questo episodio a un deplorevole caso isolato di intolleranza, tra i giochi di potere del governo di Kabul in difficoltà e l’ottuso fanatismo religioso. È un segnale molto serio su come vada ripensata la presenza occidentale nelle aree di cultura islamica.
Non basta più lo schermo ufficiale della lotta al terrorismo. Si tratta di ben altro. Non facciamo neppure gli ingenui, le anime belle convinte che basta rimanere imperterriti in Afghanistan - come rappresentati dell’Occidente - per promuovere, insieme con tutti i Grandi Valori Umanitari, anche e innanzitutto la dignità della donna. È una partita difficilissima. Siamo culturalmente disarmati, proprio nel momento in cui schieriamo migliaia di soldati in tenuta da combattimento che ogni sera vengono esibiti in televisione come guerrieri della civiltà contro il terrorismo. Soldati che erano stati mandati laggiù anche per togliere il burqa alle donne afghane, si diceva zelantemente da noi. Il risultato è sotto i nostri occhi.
Naturalmente in Afghanistan ci sono anche medici, insegnanti, organizzazioni non governative, volontari di ogni tipologia e nazionalità. Ma - tragico paradosso - è proprio questo Occidente che, agli occhi di alcuni influenti gruppi religiosi e delle loro donne, rappresenta un pericolo per la cultura e per l’identità islamica. Non a motivo della loro attività professionale e di tecnici, ma per la loro tacita testimonianza. Esprimono una «cultura occidentale» assai più insidiosa dei caschi militari della Nato. I soldati prima o poi se ne andranno. Ma ci sono raggruppamenti politici e culturali (che semplicisticamente continuiamo a chiamare «fondamentalisti») che stanno ponendo le premesse per cacciare idealmente - se non fisicamente - l’altro Occidente, quello culturale; per neutralizzarlo come autentico partner di dialogo.
È uno scenario di «scontro delle civiltà» che viene retoricamente scongiurato e negato da tutti, semplicemente perché è «raffreddato». Ma non si tratta di una replica della classica Guerra Fredda alla cui conclusione è nata l’attesa che il mondo fosse finalmente più libero, liberato, liberista e liberale. Il mondo invece è diventato più cattivo, le identità collettive (popoli, nazioni, gruppi sociali) si sono trasformate in ossessioni autoreferenziali, i propri valori sono dichiarati non negoziabili, cioè indifferenti alle conseguenze che ricadono su chi non li condivide.
In questo contesto un ruolo decisivo è giocato dalle religioni, che si presentano come visioni della vita vincolanti e totalizzanti. Lo è in modo particolare l’Islam, che pure è un universo religioso e culturale molto differenziato e complicato al suo interno. Ma, a ben vedere, non esiste neppure un «Occidente» come entità compatta e coerente così come viene presentata dai suoi nemici e detrattori.
A questo proposito vorrei mettere a fuoco un punto essenziale. L’ostilità verso l’Occidente non riguarda la sua tecnologia e le sue prestazioni materiali ed economiche, che al contrario vengono apprezzate, acquistate, imitate, metabolizzate. Basti pensare all’Iran di questi giorni, che identifica l’orgoglio islamico con il suo controllo della tecnologia nucleare. Come se questa tecnologia non fosse l’estremo prodotto di quella razionalità occidentale che viene sistematicamente denigrata dai religiosi al potere.
L’accettazione, anzi l’interiorizzazione del valore della tecnologia da parte del mondo islamico è totalmente slegata dalla storia della scienza occidentale che la precede, la spiega, la motiva. Non solo la tecnologia è scissa dalla ragione scientifica che l’ha prodotta, ma questa stessa razionalità scientifica è scissa dalla ragione occidentale nel suo insieme.
La ragione occidentale non si riduce affatto allo scientismo. È razionalità e ragione occidentale anche quella che enuncia i diritti, in particolare della donna - per rimanere in tema. L’insulto «cagne dell’Occidente» è una volgare ma significativa distorsione dell’idea dell’Occidente e della sua razionalità, distorsione che in modo più sofisticato è condivisa da molti intellettuali islamici. Discutere con loro, per farsi capire e per capire; instaurare un autentico scambio reciproco di argomenti e di ragioni è un lavoro ancora da fare in profondità. Mi chiedo se siamo davvero pronti.
Nell’area della cultura islamica c’è la Turchia, un Paese che è agli antipodi dell’Afghanistan e ha ben poco in comune con l’Iran. A parte gli stretti rapporti storici con l’Europa, la Turchia ha avuto un’esperienza del tutto particolare, grazie all’energica modernizzazione, occidentalizzazione e secolarizzazione imposta dal regime kemalista sino dagli Anni 20. Ma negli ultimi decenni anche in Turchia si è assistito a un inatteso revival dell’Islam tradizionale che ha modificato il quadro delle forze politiche e rimesso in discussione alcune acquisizioni cosiddette «laiche» (come l’abolizione del velo nell’ambito pubblico). In realtà quello che accade in Turchia oggi non è molto dissimile da quello che si verifica in Italia: le istanze religiose rivendicano il diritto di influire e regolamentare - quando si offre l’occasione - l’etica pubblica e i codici della vita privata dei cittadini. Naturalmente affidandosi al Corano.
Da anni nell’agenda europea c’è la questione dell’ingresso della Turchia nell’Ue. È riemersa settimane or sono in occasione del viaggio di Barack Obama in Europa. L’opinione pubblica ha preso atto della netta divergenza di prospettiva tra il presidente americano, favorevole alla sollecita accoglienza della Turchia nell’Ue, e l’opposizione di Francia e Germania. Il tema non è stato ulteriormente approfondito, anche perché sono in gioco aspetti di natura molto diversa. È evidente che la preoccupazione americana è per la stabilità strategica ai confini orientali dell’Europa. Gli europei invece (quelli che contano) sono sensibili ad altri aspetti: il troppo lento e incerto processo di democratizzazione delle strutture giuridiche, frenate ora anche dal revival islamico, e la difficile e irrisolta questione curda.
In questo contesto il presidente del Consiglio italiano si è inserito con una proposta che a suo avviso sarebbe di mediazione. Avendo sott’occhio la crisi nel mercato del lavoro, suggerisce che l’entrata della Turchia nell’Ue sia accompagnata da una provvisoria regolamentazione che rallenti la forza lavoro turca nel mercato europeo. Per quanto sensata, questa proposta (di natura sociale ed economica) elude i punti-chiave che sono di altra natura, come si è detto: l’energica prosecuzione dei processi di democratizzazione, con il contenimento di una possibile islamizzazione del Paese, e la soluzione del problema curdo.
Si tratta insomma di questioni di carattere politico e culturale in senso forte, che rilanciano i temi di fondo enunciati sopra. Non c’è dubbio che affrontarli insieme con un Paese e una cultura aperti all’Occidente, come la Turchia, sarebbe un decisivo contributo alla loro chiarificazione.
fonte: da "la Stampa" del 18 aprile 2009