Rassegna Stampa

Il linguaggio della cattiveria

di Nadia Urbinati


Il Ministro dell’Interno ha dichiarato qualche giorno fa che «per contrastare l’immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti, ma cattivi e determinati nell’applicazione della legge».

Non dovrebbe essere necessario spiegare al Ministro che la legge non si applica né con cattiveria né con bontà: si applica con equità e giustizia. Sono le azioni delle persone che possono essere buone o cattive, e che quando sono cattive, come quella che si è consumata alla Stazione di Nettuno, non ci può essere ambiguità nel giudizio e nell’applicazione della legge. La condanna morale deve essere univoca e determinata e la legge applicata con giustizia. Ma l’attenzione al linguaggio è ciò che dovrebbe premere di più. Poiché è un fatto che se le parole di un ministro suggeriscono un’inferenza fra il successo della lotta all’immigrazione clandestina e la «cattiveria» nel modo di contrastarla, chi le ascolta potrebbe facilmente trovare in esse quello che cerca: la giustificazione del proprio sentimento discriminatorio e violento contro i clandestini, contro i deboli, contro tutti coloro che non rientrano nel loro modello «cattivo» di umanità. Chi ricopre incarichi pubblici o ha
lo straordinario potere di essere ascoltato e letto da tutti dovrebbe sentire il peso della responsabilità delle parole che pronuncia.

La società italiana è più violenta e intollerante e nello stesso tempo massicciamente più esposta a un linguaggio pubblico che è sempre meno pubblico e sempre più usato con stile privatissimo, e quindi anche esagerato e rozzo. Ecco allora che la violenza contro i clandestini diventa il segno di un’emergenza che non si può contenere se non con la forza, perché pare ovvio che se ci sono casi di violenza è perché i clandestini non se ne stanno a casa loro e continuano ad arrivare sulle nostre coste. Ecco allora che la violenza contro le donne diventa un oggetto di ironia: impossibile contenerla, occorrerebbe mettere un militare a scortare ogni donna (bella naturalmente); dove non è chiaro perché ad essere scortati non debbano essere i maschi, visto che sono i potenziali criminali il problema, non le potenziali vittime.

In ogni caso la violenza viene dipinta
come un fatto naturale. Nell’un caso perché è naturale che i padroni di casa (la nazione non è forse “nostra”?) vogliano tener fuori gli ospiti non desiderati, con tutti i mezzi che hanno a disposizione. Nell’altro, perché è nella natura del maschio desiderare le donne (soprattutto se belle). Non c’è nulla da fare. Se non ci fossero stranieri alle porte e se le donne fossero brutte, la sicurezza sarebbe garantita senza sforzo. Ma così non è e quindi ci sono e ci si devono aspettare reazioni, anche cattive. Ma non doveva essere la sicurezza la preoccupazione centrale di questo governo di destra? Certo che lo doveva e lo è ancora. Il problema è che, poiché non sembra che i progetti del governo, anche quelli più autoritari (militarizzare la funzione ordinaria di polizia; schedare i rom; e ora anche costringere i medici a fare gli agenti informatori), producano grandi risultati, allora si ricorre ad un’arma aggiuntiva, quella populista. Si lanciano messaggi infiammanti che implicitamente stimolano i cittadini a pensare che debbano prendersi cura della sicurezza nei modi loro propri, sostenendo il governo nella sua azione cattiva e determinata. Una domanda da donna mi viene a questo punto spontanea (lasciando ai potenziali predatori decidere se sono bella abbastanza da meritare il loro desiderio di violenza, secondo il suggerimento del nostro Presidente del Consiglio): non è chiaro cosa dovrebbero fare le donne (belle) per difendersi dai loro potenziali stupratori, visto che non possono essere protette dai guardiani della legge. Armarsi e attaccare prima di essere attaccate, come Hobbes pensava che
succedesse nello stato di natura?

fonte:
l’Unità – 17 Febbraio 2009