Rassegna Stampa

tratto da Il Manifesto, 02.01.2009

Guerra dopo guerra
di Giampaolo Calchi Novati

In un aspetto la crisi israelo-palestinese è uguale a tutti i conflitti di tutto il mondo: le cause, le motivazioni, le
responsabilità sono plurime, si rimandano e si rafforzano l'una con l'altra. I razzi Qassam non spiegano da soli la
guerra d'Israele contro Gaza: se si può chiamare guerra uno scontro così sproporzionato non solo per la tecnologia
militare dei due contendenti ma per il fatto che da una parte combatte uno stato in piena regola, persino troppo
«sovrano» visto che a Israele, a dispetto dell'opinione dei più, sono permesse violazioni delle regole non ammissibili
in genere per nessuno (salvo le superpotenze), e dall'altra una larva priva di qualsiasi personalità (tanto che spesso si
paragona la lotta di Hamas a una guerriglia benché le analogie con le guerre di liberazione o le insorgenze siano
davvero scarse se non per le vicende delle Intifada, che però si sono svolte nella West Bank più che a Gaza). Le
provocazioni di Hamas sono una mezza verità. Non si capisce del resto perché le condizioni di vita degli abitanti di
Israele a ridosso della Striscia e sotto il tiro dei missili artigianali sparati da Gaza dovrebbero essere più insopportabili
delle condizioni di chi è rinchiuso in una specie di prigione, in perenne embargo, senza collegamenti esterni, oggetto
di periodiche incursioni e omicidi mirati. Per essere seri si deve partire dall'eccezionalità, per non dire unicità, della
fattispecie arabo-israeliana e poi israelo-palestinese e dalla sostanziale circolarità degli scambi. Non ci sono azioni e
reazioni singole. C'è una storia a più facce che si trascina da un secolo. Anche in Israele-Palestina valgono le
questioni legate allo stato e alla nazione, al potere, alle classi, alla terra e alla formazione sociale, ma sopra o sotto
questi fattori c'è l'intreccio di due realtà concrete e simboliche che nessuna divisione è riuscita veramente a separare.
La stessa guerra è il modo d'essere di questa interazione un po' perversa. Guerra dopo guerra, lo spazio fra israeliani
e palestinesi è diventato sempre più comune, anche se via via più sbilanciato a favore di Israele quanto a capacità di
gestirsi e ad autonomia effettiva e protetta. Israele, come stato e come soggetto collettivo di cui fanno parte, oltre alle
decisioni delle autorità, un'opinione pubblica informata e un discorso politico-culturale che si presume libero, fa torto a
se stesso se cerca di far credere che senza i deprecati e deprecabili razzi non ci sarebbe stato bisogno di una guerra.
Dov'è finita la coscienza critica che si è soliti attribuire alla sua sofisticata intellettualità? Si aveva ragione di ritenere
che al centro del confronto in vista delle elezioni di febbraio - in una fase obiettivamente cruciale per le obbligazioni
dell'ordine globale, la crisi finanziaria, il cambio alla Casa Bianca, la (forse) crescente ambizione dell'Europa - non ci
fossero i Qassam ma temi come la natura dello stato ebraico oggi e domani, la conciliabilità fra democrazia e
demografia, le vie per integrarsi convenientemente nel Medio Oriente (altro che Unione europea). In gioco fra Israele
e Palestina c'è l'ingombro fatale del disegno che ha portato alla nascita e all'affermazione dello stato ebraico con la
grandezza dell'utopia e le sue insanabili contraddizioni. Allo stesso modo, e lo si dice non solo per equidistanza, i
dirigenti di Hamas e al limite l'intero movimento palestinese non possono ridurre tutto alle colpe di Israele (l'assedio
della Striscia, gli insediamenti nei territori, il muro, ecc.), perché l'applicazione degli accordi o degli schemi di accordo
messi a punto a tutt'oggi si è dimostrata o inadeguata o effimera o impossibile. La questione israelo-palestinese può
essere affrontata in due modi diversi e alternativi: o con la violenza o con la politica. Si può sostenere che anche la
violenza è un'espressione della politica: è vero, ma la distinzione è fra la violenza come fine e la violenza come
mezzo. Non si ripeta la solita solfa del «processo di pace» e dei «due stati per due popoli». Questi obiettivi possono
essere raggiunti sia come sbocco della violenza (sopraffazione anche nelle eventuali concessioni) che per una scelta
politica (equità nel riconoscimento dei diritti degli uni e degli altri). Finora ha prevalso l'uso sistematico della violenza.
Israele ha in mente una soluzione - la sicurezza come dogma, la pace come possibilità, lo stato palestinese solo
come necessità - che presuppone lo squilibrio, la supremazia, un dominio acclarato come unico pegno di sicurezza
dando per scontato che i rapporti con i palestinesi, gli arabi e l'ambiente mediorientale nel suo insieme saranno
sempre e comunque di ostilità se non di belligeranza. Fatah e Hamas soffrono anche a distanza per la mancanza di
una strategia attendibile. Arafat ebbe almeno il merito di tenere in vita un'idea unica di Palestina quando la Palestina
era smembrata e negata da tutti. In ogni caso, nessuna componente del movimento palestinese ha mai immaginato di
imporre una soluzione che implicasse un'egemonia a senso unico. La fase storica del «rifiuto arabo», quale che fosse
il suo significato reale, è chiusa. Sono altre le minacce che incombono su Israele (provenienti anche dall'interno).
Determinante, pur nella lunga durata, è il contesto in cui il contrasto si colloca di volta in volta. C'è una bella
differenza fra Nasser e Mubarak. Ai tempi di Nasser l'impegno arabo e panarabo aveva come riferimento il
sovvertimento dei rapporti di origine coloniale. Il Rais vinceva politicamente anche quando usciva sconfitto da una
guerra perché cavalcava l'onda ascendente. Si supponeva che l'ordine mondiale potesse e dovesse essere forzato
per adattarsi alle aspettative del Terzo mondo. Il 1956 a Suez fu il clou esaltante di quell'impegno: non servì a nulla a
Francia e Inghilterra sbaragliare l'Egitto in una guerra sbagliata e anacronistica. Israele allora credette utile mettersi al
servizio dell'ultima fiammata del colonialismo europeo e subì più umiliazioni che gratificazioni scontrandosi con la
politica decisamente post-coloniale degli Stati Uniti. Il declino della causa araba cominciò nel 1967 con la guerra dei
sei giorni e si precisò nel 1977 quando Sadat andò alla Knesset a concordare i termini della resa. Il bipolarismo Est-
Ovest non dava nessuna copertura alla causa araba. L'errore strategico di Israele è di non aver colto le diverse
opportunità dei vari passaggi adottando lo stesso schema dell'autodifesa preventiva per esibire sempre e solo la forza
militare. L'invasione del Libano nel 1982 lo dimostra in modo fin troppo evidente. Invece di rompersi la testa sui
«piccoli problemi» delle «piccole patrie», che appartengono al passato (la prima rivolta araba esplose nella Palestina
mandataria nei lontani anni Trenta), Israele, palestinesi e arabi farebbero bene a misurarsi con le sfide che
riguardano le loro posizioni relative nel sistema globalizzato. La globalizzazione, si sa, si occupa dell'ordine, non delle
vittime. Le novità non mancano. Potrebbe essere imminente il superamento dell'era degli idrocarburi da cui dipende
l'economia di quasi tutti i paesi arabi della regione. La Palestina ha il vantaggio di non doversi sottoporre a questo tipo
di riconversione. Il suo interlocutore obbligato nella transizione è e resterà Israele. E qui si apprezza meglio la
differenza fra la guerra e la politica. Le alternative diventano: esclusione o inclusione. Demarcare i confini era il
compito del colonialismo. In futuro, con o senza Hamas, conteranno i diritti della cittadinanza (più della sovranità), le
funzioni e le specialità (più dell'origine etnica). Se Israele è la forza vincente, incombono su Israele le responsabilità
maggiori. Deve scegliere molto semplicemente se accanirsi contro i vinti (i palestinesi) o contribuire al loro riscatto.