Rassegna stampa

Quei poteri che temono la letteratura

di Roberto Saviano


È davvero emozionante essere qui stasera. Quando mi è giunto l’invito dell’Accademia di Svezia, ho pensato che questa era la vera protezione alle mie parole. È una domanda complessa quella che ci interroga stasera: perché una letteratura mette in crisi potenti organizzazioni criminali, che fatturano 100 miliardi di euro l’anno, che massacrano innocenti. Io penso che una delle risposte sia: perché la letteratura ha il potere di svelare i meccanismi, di rappresentare questi crimini non in maniera tipizzata o stereotipata, come molte volte ha fatto anche il cinema - penso alla ferocia glamour de Il padrino di Scarface. Ma li svela parlando al cuore, allo stomaco e alla testa dei lettori.


Ma c’è una differenza tra quanto accade qui in Occidente e quanto accade nei regimi totalitari rispetto alla stessa parola che appare “scomoda” o pericolosa. Nei regimi oppressivi qualunque parola, o verso contrario a ciò che quel dettame impone, diventa condizione sufficiente per essere messo all’indice. Non è così in Occidente. Dove tu scrittore, o artista puoi fare, dire e pensare ciò che vuoi. A patto però di non superare la linea dell’indifferenza o del moderato ascolto. Quando invece buchi la soglia del rullo compressore, quando superi la soglia dell’ascolto e vai in alto, o in profondità, a quel punto e solo allora diventi un bersaglio. Qualcuno ha detto che dopo Primo Levi, e dopo Se questo è un uomo, nessuno può più dire di non esser stato ad Auschwitz. Non di non esserne venuto a conoscenza, ma di non esserci stato. Ecco ciò che i poteri temono della letteratura, quello criminale e gli altri poteri. Che i lettori sentano quel problema come il loro problema, quelle dinamiche come le loro dinamiche.


Quando i carabinieri ti dicono che la tua vita cambierà per sempre, oppure quando un pentito svela in quale data, a suo parere, cesserai di vivere, la prima sensazione, la prima domanda che ti fai è: che cosa ho fatto?


Inizi a odiare le parole che hai scritto, e pensi che siano le tue parole ad averti tolto la libertà di camminare, di parlare, di vivere.


Penso a una giornalista come la Politkovskaja, che ha dato una dimensione universale alla tragedia cecena, non era più solo un problema locale. Penso a uno scrittore come Salamov che ha raccontato l’inferno dei gulag, e con esso l’intera e universale condizione dell’uomo. Dopo quella letteratura, il mondo si sente rappresentato nella sua dimensione più profonda, e quindi non può prescindere più da quella parola. Allora non c’è più Russia o Cecenia o Mosca o Napoli. La mafia può condannarti, ma quello che ti ferisce sono le accuse della società civile, Dicono che stai speculando sul successo, che hai fatto tutto per visibilità. E che stai rovinando il paese. Sono ferito da quest’ultima affermazione. Perché penso che raccontare sia resistere. E stare vicino alla parte sana del Paese, a quella parte che non si arrende, che combatte le organizzazione criminale che hanno in mano grandi fette dell’economia, non solo nazionale. Qualcuno dice anche che sono ossessionato dal sangue, dalle ingiustizie. Ma chi ha dentro un’idea di bellezza e di giustizia, non può non sentire questa esigenza. Penso a quello che diceva Albert Camus: “Esiste la bellezza ed esiste l’inferno. Vorrei rimanere fedele ad entrambi”.

Fonte: La Repubblica - 26 novembre 2008