Frère Alois nel paese natale di Giovanni XXIII
Il paese di Sotto il Monte, dove è nato Angelo Roncalli, che diventerà papa Giovanni XXIII, organizza un anno di celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della sua elezione a papa. A causa dei legami profondi che hanno unito frère Roger a questo papa, frère Alois vi è stato invitato con qualche fratello il 18 ottobre per animare una preghiera. Sotto un vasto tendone, 1500 giovani italiani si sono riuniti per questa preghiera. Erano presenti diversi membri della famiglia del papa, come anche Mons. Loris Capovilla, che fu suo segretario. Ecco il testo che frère Alois ha pronunciato:
È una grande gioia per noi fratelli poter essere qui con voi, per pregare e per rendere insieme omaggio al carissimo papa Giovanni XXIII. È anche una grande gioia avere questa opportunità per dire a Mons. Capovilla e alla famiglia Roncalli quanto bene vogliamo loro.
In diverse occasioni, ho sentito frère Roger, il fondatore della nostra comunità, pronunciare queste parole forti: «Il fondatore di Taizé è Giovanni XXIII». In un certo senso è vero, e anche Giuseppe Roncalli, il fratello più giovane del papa, fece un giorno un’affermazione simile.
Qualche anno dopo la morte di Giovanni XXIII, Giuseppe Roncalli venne due volte a Taizé con alcuni famigliari. Notò che i giovani erano alloggiati sulla nostra collina in condizioni molto semplici. E una sera, disse a suo nipote Fulgenzio Rossi che lo accompagnava: «Ciò che uscirà da Taizé, è mio fratello papa che lo ha iniziato».
Frère Roger ha spesso parlato del segno indelebile lasciato su di lui da Giovanni XXIII. Questo papa è l’uomo che forse ha più venerato sulla terra. Perché? Perché in lui traspariva la misericordia di Dio. Eletto papa, chiedeva che si pregasse affinché fosse un buon pastore, a immagine di Gesù.
La bontà del suo cuore lo portava a vedere dapprima ciò che c’era di buono nell’altro. Frère Roger scriveva: «Giovanni XXIII si fidava di chi gli stava di fronte. Vedeva nel suo interlocutore l’immagine di Dio. Discerneva in lui il meglio, la purezza d’intenzione. Sostenuto da una vita di comunione in Dio, poneva sugli altri, e anche su se stesso, uno sguardo di pace».
Sì, nella sua vita, Giovanni XXIII ha dato un posto d’onore alla bontà. È questo che ha così colpito i suoi contemporanei. Talvolta si prendeva la sua bontà per ingenuità ed egli ne soffriva. Lontano dall’essere cieca, la bontà supponeva per Giovanni XXIII un discernimento e anche una lotta interiore. La bontà per lui era legata alla capacità di ammettere la parte di ombra che esisteva negli altri come in se stesso.
Dei cristiani non hanno forse troppo spesso ceduto a una visione pessimista dell’uomo? Frère Roger condivideva con Giovanni XXIII uno sguardo positivo sull’essere umano.
Oggi, nel nostro ministero a Taizé accanto ai giovani, noi viviamo ancora di quella intuizione. Vorremmo accogliere in un clima di fiducia i giovani che vengono a Taizé, poiché questo permette loro di scoprire che Dio li abita già, anche quando la loro fede è molto piccola. Possono allora capire che Dio li accoglie come sono. Posso dire che, con l’ottimismo della fede che gli era proprio, Giovanni XXIII ci aiuta a trasmettere la fede ai giovani d’oggi.
Se frère Roger era rimasto così segnato dal papa, è anche perché Giovanni XXIII ha tolto il velo sul mistero della Chiesa. Ha fatto scoprire a molti la Chiesa nella sua universalità. Egli aveva la passione della comunione. Vedeva il suo ministero di pastore universale innanzitutto come quello della riconciliazione. Il mondo intero era la sua famiglia, come gli piaceva dire. E questo implicava anche per lui un impegno instancabile per la pace sulla terra.
Un pastore universale è colui che riunisce e stimola alla riconciliazione coloro che si erano abituati a vivere separati. Dopo aver annunciato il Concilio, Giovanni XXIII ha dichiarato: «Non faremo processi storici, non cercheremo di sapere chi ha avuto torto o chi ha avuto ragione; le responsabilità sono condivise; noi diremo solamente: riconciliamoci!».
Giovanni XXIII aveva un senso molto vivo della collegialità, anche se alla sua epoca non se ne parlava ancora molto. Egli era convinto che il Concilio doveva essere l’opera dei vescovi stessi. Questo pomeriggio, sono arrivato a Sotto il Monte venendo da Roma, poiché papa Benedetto XVI mi ha invitato al Sinodo dei Vescovi che si tiene in questo momento. Ascoltando in questi ultimi giorni i vescovi del mondo intero, mi dicevo: «Se i vescovi arrivano a vivere, attraverso questo Sinodo, una così bella espressione della collegialità, lo devono ancora a Giovanni XXIII». Anche lì egli ha aperto un cammino che la Chiesa non ha finito d’esplorare.
Secondo Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II doveva liberare la Chiesa da ciò che era impolverato. Egli ha un giorno scritto: «Non siamo sulla terra per conservare un museo, ma coltivare un giardino fiorente di vita e promesso ad un’avventura di luce». Era così desideroso che i cristiani non vivessero nel passato. Egli era attento ai segni dei tempi. Con coraggio ha invitato la Chiesa ad essere pienamente presente nel mondo d’oggi, e questo in una fedeltà senza difetto nei confronti della grande tradizione. Per lui la Chiesa non poteva essere fuori dal tempo, come frère Roger egli voleva che vivesse l’oggi di Dio.
Cito queste parole di frère Roger che mostrano la stessa visione di Chiesa di Giovanni XXIII: «Quando incessantemente la Chiesa ascolta, guarisce, riconcilia, essa diventa ciò che è nel più luminoso di se stessa, una comunione d’amore, compassione, consolazione, limpido riflesso del Cristo risorto. Mai distante, mai sulla difensiva, liberata dalle severità, essa può irradiare l’umile fiducia della fede fin nei nostri cuori umani».
La semplicità del cuore è un altro valore che frère Roger ha ritenuto di Giovanni XXIII e di cui noi viviamo sino ad oggi. Fin dalla prima udienza, la sua accoglienza fu molto semplice. Egli batteva le mani quando frère Roger gli parlava di riconciliazione.
Giovanni XXIII è sempre rimasto consapevole dei suoi limiti. Un giorno ha detto a frère Roger: «Si ricordi che io sono figlio di un padre e di una madre». Egli non dimenticava mai che era nato in una umile famiglia del nord Italia, restava attaccato a Sotto il Monte, e non voleva che si dimenticasse la sua condizione umana.
È ancora con la stessa semplicità che, alla fine della sua vita, diceva a frère Roger come vedeva il posto di Taizé nella Chiesa. Egli affermava, facendo con le sue mani dei gesti circolari: «La Chiesa cattolica è fatta di cerchi concentrici sempre più grandi, sempre più grandi». In quale cerchio vedesse la nostra comunità, non lo ha precisato. Ma frère Roger ha capito che, per il papa, noi eravamo all’interno di quei cerchi e che l’essenziale era già compiuto.
Diversi anni più tardi, siamo stati infinitamente riconoscenti a papa Giovanni Paolo II per aver ricordato, durante la sua visita a Taizé il 5 ottobre 1986, l’amore che Giovanni XXIII nutriva per noi. Cito Giovanni Paolo II: «Vorrei esprimervi il mio affetto e la mia fiducia con quelle semplici parole con le quali il papa Giovanni XXIII, che vi amava tanto, vi salutava un giorno: Ah! Taizé, quella piccola primavera!».
E ora, frère Roger ha raggiunto in cielo il carissimo papa Giovanni XXIII. Sono sicuro che, come mi scriveva la settimana scorsa Mons. Capovilla, insieme gioiscono per il nostro incontro di questa sera.