tratto da "La Stampa" del 10 febbraio 2008
Più umili con i laici, di Enzo Bianchi
Come avevamo più volte paventato e cercato di scongiurare anche da queste colonne, è ormai iniziata una nuova stagione nei rapporti tra credenti cristiani e i cosiddetti “laici”, cioè non cristiani in Italia. Da un confronto, un dialogo, comunque un clima in cui scarse erano le diffidenze reciproche, siamo passati a una stagione di aperto conflitto, di non ascolto, di polemica e a volte a situazioni di intolleranza, fino al disprezzo dell’altro e al non riconoscimento di quelle capacità di cui ogni essere umano è dotato e che lo fanno appunto tale: la capacità del bene e del male, la capacità di avere e di ritemprare un’etica, la capacità di custodire e vivere una vita interiore o spirituale.
La situazione attuale è grave e forse stiamo già vivendo uno scontro: non il conflitto tra islam e occidente cristiano profetizzato da Huntington, ma uno scontro all’interno delle nostre società europee, uno scontro non sulla fede o sulla cultura, ma sulla morale, sull’etica. Pare sempre più difficile ormai che lo stato possa legiferare tenendo conto di tutte le componenti culturali della nostra società plurale e sembra che le posizioni religiose possano essere lette solo come fondamentaliste, settarie e quelle dei laici, per converso, come nichiliste e incapaci di affermare valori umani. Certamente alcuni eventi recenti, come la mancata presa di parola di Benedetto XVI all’inaugurazione dell’anno accademico all’Università La Sapienza a Roma, pesano e peseranno proprio sulla possibilità di confronto e di dialogo: comunque occorrerà lavorare con serietà, impegnarsi a fondo affinché questa polemica cessi e lasci spazio all’ascolto reciproco.
E’ anche vero che negli ultimi mesi sono stati pubblicati numerosi libri e pamphlet contro i cristiani, e i cattolici in particolare, che hanno indotto alcuni di questi ultimi a sentirsi assediati e osteggiati, ma un cristiano autentico non teme queste schermaglie che pur lo rattristano. Ci sono tra i non cristiani, tra i “laici”, grandi spiriti capaci di autenticità, di ricerca, di passione per l’uomo che devono restare interlocutori dei cristiani. La loro preoccupazione per la laicità è passione per la polis, per la sua edificazione nella convivenza e io ritengo che siano un grande aiuto per noi cristiani anche in vista di una purificazione della nostra fede, di un’autocritica necessaria per non cedere alla seduzione degli idoli “religiosi”: è una possibilità di cercar insieme ciò che è bene per l’uomo e per la società. Diversi di questi laici, pur restando autenticamente tali, hanno saputo essere eloquenti sui media e prendere le distanze da quei “militanti” inclini a denigrare la fede, il cristianesimo e le religioni.
In vista di un’auspicata ripresa del dialogo, pur sapendo che i giorni sono cattivi perché parole come dialogo, confronto, ascolto reciproco sono diventate anche in ambito cristiano “espressioni di cui diffidare”, credo che i cristiani dovrebbero nutrire alcune preoccupazioni. La prima è quella della comunicazione: oggi molti messaggi che vengono da figure ecclesiali rappresentative sembrano non essere comprese e registrano un’immediata non ricezione da parte di molti, soprattutto non cattolici. Per una comunicazione vera ed efficace occorre che colui che riceve il messaggio sia messo in condizione di recepirlo correttamente; ma se la formulazione del messaggio pone problemi, se non spiega sufficientemente, se non avviene nel momento adeguato, se addirittura si lascia affiancare o si compiace della solidarietà di altre emittenti che hanno interessi diversi da quelli della fede, allora tutto è davvero minacciato. Sovente registriamo questa traiettoria che disorienta: emissione di una parola, reazione e giudizio negativi, tentativo di chiarimento da parte dell’emittente con lagnanze per la mancata ricezione... Eppure la celebre formula di Mc Luhan - “anche il medium è messaggio” - dovrebbe pur insegnare qualcosa.
Sì, occorre prendersi cura non solo del contenuto del messaggio, ma della sua corretta ricezione: un reale deficit di comunicazione finisce per approfondire sempre di più il solco tra cristianesimo e cultura, questo solco che ormai da trent’anni è sotto osservazione da parte dei cristiani che cercano di colmarlo con la costruzione di ponti di comunicazione e di confronto reciproco. Il fatto che la gente cui ci si vorrebbe rivolgere non recepisce il messaggio o addirittura ne fa una lettura stravolgente dovrebbe essere fonte di viva preoccupazione: l’incomunicabilità può dipendere non solo dalla sordità di un interlocutore ma anche dalla scelta di una lingua non idonea...
Legata alla questione della comunicazione c’è anche quella dello “stile”: tema fondamentale per chi è cristiano. Nella vicenda di Gesù come è stata narrata nei vangeli, lo stile è importante quanto il messaggio: chi conosce il Nuovo Testamento è consapevole dell’urgenza che l’annuncio sia accompagnato da una testimonianza di vita, da un modo di agire conforme al messaggio che si vuole comunicare. Nei vangeli ritroviamo sulla bocca di Gesù più ammonimenti sullo stile di vita e di predicazione dei discepoli – “amatevi come io vi ho amati ... imparate da me che sono mite e umile di cuore ... non fate come gli ipocriti ... non così è tra voi...” – che non sul contenuto del messaggio che è sempre semplice, sintetico, preciso.
Dal concilio Vaticano II i cattolici hanno tratto un insegnamento non sul contenuto della fede – solo chi è sprovveduto di senso ecclesiale o incerto nella fede può pensare che la fede sia cambiata nella chiesa! – ma soprattutto sullo stile: stile dello stare dei cristiani in mezzo agli altri uomini, stile nel partecipare alla vita della polis, stile nell’attuare l’evangelizzazione e la missione, stile nell’incontro con i credenti in altre religioni o con i non credenti. E questo non è affatto privilegiare la forma rispetto al contenuto, non è badare alle apparenze anziché alla sostanza, né tanto meno pensare che si tratti di addolcire una pillola amara, bensì percepire che dal “come” viene annunciata la “buona notizia” dipende la stessa credibilità dell’annuncio. Il concilio ha voluto proprio rinnovare questa credibilità: per essere percepito come meritevole di fiducia, affidabile, il messaggio di Gesù deve essere vissuto da chi lo predica, deve essere accompagnato da un agire coerente, disinteressato, gratuito, deve essere animato dall’amore per l’uomo e non dalla ricerca di potere, deve essere proclamato lasciando nella libertà gli ascoltatori, senza imposizioni e senza pressioni, con mezzi e atteggiamenti conformi a quelli usati da Gesù stesso e dalla chiesa nascente.
Lo stile con cui il cristiano sta nella compagnia degli uomini è determinante: da esso dipende la fede stessa, perché non si può annunciare un Gesù che racconta Dio nella mitezza, nell’umiltà, nella misericordia e farlo con stile arrogante, con toni forti o addirittura con atteggiamenti mondani che appartengono a stagioni della politica o della militanza sociale.
Qua e là emergono statistiche e dati che testimonierebbero un calo di fiducia nella chiesa: non crediamo che la fiducia autentica sia soggetta a interpretazioni facili, a sondaggi, a sbalzi improvvisi... ma resta vero che siamo in una società che, ci piaccia o no, guarda soprattutto all’immagine e questa deve molto allo stile. Da qui l’esigenza di vigilanza da parte dei cristiani, da qui una sana preoccupazione riguardo al “volto” di Gesù e della chiesa che riusciamo a tratteggiare per i nostri contemporanei. I cristiani non devono temere né essere angosciati per il rischio di essere letti come minoranza: ricordiamoci che secondo la bibbia indire un censimento per contarsi non è gradito a Dio. La fede non è questione di numeri, ma di convinzione profonda, di grandezza d’animo, ed è ciò che “fa” il cristiano autentico e la sua parola credibile.