SULLE ORME DI PAPA GIOVANNI: QUARANTESIMA MARCIA PER LA PACE
Sotto il Monte Giovanni XXIII – P.I.M.E. 31 dicembre 2007
Sotto il Monte Giovanni XXIII – P.I.M.E. 31 dicembre 2007
Nello spirito di MEMINISSE JUVABIT
Riflessioni dell’Arcivescovo LORIS FRANCESCO CAPOVILLA
FAMIGLIA UMANA COMUNITÀ DI PACE
1. Fratelli e Sorelle. Ventitré anni or sono (22. IX. 1984) ebbi la sorte di presenziare a Rovereto alla ripresa dei giornalieri rintocchi della restaurata campana Maria Dolens. Fui invitato a parlare dopo l’intervento del dr Henry Pierre Arphang, ambasciatore del Sénégal presso il Quirinale, decano dei rappresentanti diplomatici dell’Africa a Roma. Mi rivolsi subito a lui: Signor ambasciatore! La vostra fisionomia introduce in quest’aula il vostro congiunto Léopold Sédar Senghor, appassionato e geniale statista, poeta e profeta, maestro della negritude, cittadino del mondo, giacché egli appartiene a tutta l’umanità che ama, avendo trascorso l’intera esistenza nei cantieri della pace. Tengo molto caro il volume NATION ET VOIE AFRICAINE DU SOCIALISME, che egli recò in dono a Giovanni XXIII il 5 ottobre 1962, con questa dedica: “Á Sa Sainteté Jean XXIII hommage de son fils soumis aux commandements de Dieu et de l’Eglise et qui cherche dans ces modestes essais à voir plus clair pour réaliser Dieu sur la Terre Africaine” (Léopold Sédar Senghor, POLITICA AFRICANA, Ed. Cinque Lune, Roma 30 settembre 1962).
Vi intravedo le soglie di un’epoca nuova, l’aprirsi della primavera, come traspare dalla poesia Libèration, struggente anelito al rifiorire dell’Africa:
Mi bagnavano a poco a poco l’alba e il verde tenero
del prato imbevuto di schietta dolcezza.
E alzando gli occhi, oltre il sole dell’Est,
vidi spuntare le stelle, udii il cantico di pace.
Levant mon regard au delà du soleil, à l’Est,
je vis poindre les étoiles et entendis le cantique de paix (SÉDAR SENGHOR, a cura di Carlo Castellaneta, Nuova Accademia Ed. 1961, pp. 55 e 146-147).
Nel discorso rivolto a Senghor, all’indomani della peregrinazione a Loreto ed Assisi, il Papa così si esprimeva:
Hier soir, pendant que la cité d’Assisi allumait tous ses feux en signe d’amour de Dieu, de vénération au Saint Poverello, et de jubilation pour la présence du Pape, nous évoquions, sous les splendeurs de foi et d’art de la basilique papale, les images bibliques des fleurs qui grandissent et exhalent leur parfum pour la gloire de Dieu (cfr Sir 39, 13-14). Tel est le bouquet que, ce matin, monsieur le Président, nous offrons par vos mains au Sénégal et a toute l’Afrique jeune, fort, et tant aimée (DISCORSI MESSAGGI COLLOQUI DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII, IV, p. 573, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1959-1964).
Fratelli! Vedo coi miei occhi come fosse trascritto a caratteri cubitali, ed echeggia nelle mie intimità più profonde, il paragrafo 127 dell’enciclica Pacem in terris: “Aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione bellum iam aptum ad violata iura sarcienda”. In possesso della spaventosa capacità micidiale dell’energia termonucleare, gli uomini non possono più pensare di risolvere le controversie col ricorso alle armi. Sarebbe irrazionale, sarebbe diabolico. Alienum est a ratione.
Uomo ragionevole, respingo tutto ciò che è irrazionale; lo respingo energicamente, io, che potrei paragonarmi alla campana Maria dolens, che è stata costruita con spezzoni di armi provenienti da tutti i paesi belligeranti degli anni 1914-1918.
“Liberto affrancato dal Signore” (1 Cor 7, 22), sono infatti la risultanza dei rottami di catene spezzate, fusi nel fuoco dello Spirito.
Mi presento a voi con cuore traboccante di emozione, grato dei doni ricevuti dalla mia patria italiana, dagli apporti di culture ed esperienze universali, dalla Terra promessa decifrata dalla Bibbia.
Oso proclamare la pace con la mia lingua, che è stata appena lambita dal “carbone ardente, preso con le molle, dall’altare celeste”: Non è scomparsa la mia iniquità, il mio peccato non è stato espiato. Non avrei coraggio di dire: Eccomi, manda me, a predicare la pace (cfr Is 6, 6-8). Ancorché le mie mani non abbiano scagliato mai neanche una pietra contro chicchessia, mi sento corresponsabile di tutto il male del mondo, di tutti i conflitti che persistono, pienamente convinto che devo farmi carico delle “gioie e speranze, tristezze ed angosce” (cfr GAUDIUM ET SPES, n. 1) di tutti coloro che, dai messaggeri di Dio, attendono una testimonianza quant’altre mai schietta, coraggiosa ed eroica.
Mi piacerebbe essere un satyagrahi orientale, uno che aderisce alla verità e opera secondo il criterio di una resistenza civile non violenta, al pari di Acharya Vinoba Bahe, il discepolo prediletto di Gandhi. Negli anni cinquanta del secolo ventesimo, nell’avviare l’ardua impresa di ottenere qualche boccone di terra per i diseredati dalla fortuna, egli affermava:
- Sto facendo esperienza della presenza di Gandhi, come anche di quella del Supremo. Per natura, sono stato uomo della foresta, estraneo alla civiltà. Ora, invece, entro senza esitare nelle case di tutti. […] Invito ciascuno a farsi avanti e a mettersi al lavoro, in qualunque angolo dell’universo. Daremo luogo ad una rivoluzione che non ha precedenti nel nostro paese: la posso già vedere coi miei occhi. Si parla tanto della rivoluzione russa. L’America rappresenta un altro genere di rivoluzione. Ma né l’uno né l’altro esempio si accorda con il genio dell’India. Sono fermamente convinto che l’India, in coerenza con i suoi ideali, deve sviluppare un nuovo tipo di rivoluzione, basata esclusivamente sull’amore (Shriman Narayan, VINOBA, Cittadella Ed. 1974, p. 171). -
2. Come la propone questo convegno odierno, la riflessione sulla pace non è solo questione di dati storici, statistici, strategici; non è questione di silenzio: silenzio della resa senza condizioni dei vinti e dei deboli; silenzio dei cannoni e del sibilo dei missili; mistico silenzio dei cimiteri di guerra. No, non è questo. Primieramente è questione personale:
· se riesco a definire la pace
· se credo alla pace
· se voglio costruire la pace
· se posso edificare la pace
· se respiro nell’area della pace.
In definitiva, è questione di sapere se ho appreso che la pace è il territorio di Dio; è il capitolo secondo della Genesi, dove esultano l’armonia e il dialogo, dove l’uomo è consapevole della sua origine, del suo cammino, della sua crescita, dei suoi poteri e dei suoi limiti, del suo fine terreno ed ultimo.
Più che di documenti è questione di uomini. I documenti splendono, ma occorre divorarli, come attestano Ezechiele profeta e Giovanni l’autore dell’Apocalisse: “Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele” (Ap 10, 10; cfr Ez 3, 1-3).
La carta delle Nazioni Unite è un nobile documento, che onora la famiglia umana ed è finalizzata al superamento delle barriere tra vincitori e vinti, tra popoli grandi e piccoli, tra nazioni progredite e sottosviluppate. È una magna charta, che vuole esecutori, non proclamatori.
La costituzione della Repubblica Italiana può reggere il confronto coi documenti più alti dell’umana ragione e sensibilità.
Il suo articolo undici, lapidario ed inequivocabile, non ammette interpretazioni di comodo, non consente scivolamenti all’indietro, arretramento sul nazionalismo, strumentalizzazioni tattiche: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; [l’Italia] consente, in condizione di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; [l’Italia] promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Questo articolo si rafforza se riconsiderato nel contesto degli altri che precedono e coi quali è strettamente coniugato:
“La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione” (art. 1). “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2).
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3).
“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29).
“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità” (art. 30).
“La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” (art. 31).
3. Ho citato un testo politico universale e uno italiano; eccoci ora ad uno magisteriale della Chiesa.
La Pacem in terris di Giovanni XXIII è da molti ritenuta uno dei testi cristiani più rilevanti del secolo ventesimo. Ed è, paradossalmente, il testo che non contiene nulla di assolutamente nuovo, essendo precisamente il compendio di tutte le voci autorevoli che via via hanno precisato i punti salienti ed indiscutibili del pensiero cristiano, a condanna della pseudo fatalità che obbligherebbe giovani uomini a scagliarsi gli uni contro gli altri, per uccidere e distruggere. Lo ripeto: non contiene nulla di assolutamente nuovo. Sapevamo d’intuito, e dalla catechesi, che “la pace sulla terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può essere instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio” (par. 1). Sapevamo che gli uomini saggi e retti devono prestare ascolto ai segni dei tempi. A proposito, così recita la costituzione apostolica Humanae salutis (25. XII. 1961):
- Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi (Mt 16, 4) ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della chiesa e dell’umanità. Giacché le guerre sanguinose che si sono susseguite nei nostri tempi, le rovine spirituali causate da molte ideologie e i frutti di tante amare esperienze non sono stati senza utili insegnamenti. Lo stesso progresso scientifico, che ha dato all’uomo la possibilità di creare ordigni catastrofici per la sua distruzione, ha sollevato interrogativi angosciosi, ha costretto gli esseri umani a farsi pensosi, più consapevoli dei propri limiti, desiderosi di pace. – (DMC, IV, pp. 868-869).
Questa constatazione poneva i pastori del gregge cattolico dinanzi alle responsabilità istituzionali, non ultimo il dovere di ripresentare la chiesa come ecclesia mundi, a servizio dell’umanità. A ragione il pontefice aveva formalmente affermato:
- Questo è ormai un principio entrato nello spirito di ogni fedele appartenente alla chiesa: di essere e di ritenersi veramente, in quanto cattolico, cittadino del mondo intero, così come Gesù del mondo intero è l’adorato salvatore. Buon esercizio di vera cattolicità è questo, di cui tutti i cattolici devono rendersi conto e farsi come un precetto, a luce della propria mentalità e a direzione della propria condotta nei rapporti religiosi e sociali (DMC, II, p. 394). -
Sembra che persino il filosofo Seneca si fosse liberato dalle strettoie nazionalistiche, dal momento che affermava: “Non sum uni anguli natus, patria mea mundus est. Non sono nato in un esclusivo angolo della terra; tutto il mondo è la mia patria” (Seneca, EPISTOLAE, 28).
Come i problemi dell’umanità nel loro insieme, così i vari aspetti e momenti dell’umana convivenza richiamano l’attenzione, lo studio, la creatività dei singoli credenti, sollecitati a muoversi partendo dalla individuazione dei fenomeni emergenti nell’epoca moderna, sistematicamente segnalati nella Pacem in terris:
- L’ascesa economico sociale delle classi lavoratrici, di cui ci si deve allietare, non spaventare; l’ingresso della donna nella vita pubblica, da favorire, non appena da tollerare; la famiglia umana profondamente trasformata nella sua configurazione socio politica: non più popoli dominatori e popoli dominati, tutti i popoli si sono costituiti o si stanno costituendo in comunità politiche indipendenti; le discriminazioni razziali non trovano alcuna giustificazione; nella organizzazione giuridica delle comunità politiche si riscontra la tendenza a redigere in formule concise una carta dei diritti fondamentali degli esseri umani, inoltre si tende a fissare in termini giuridici, per mezzo della compilazione di un documento denominato costituzione, le vie attraverso le quali si formano i poteri pubblici, come pure i loro reciproci rapporti, le sfere di loro competenza, i modi e i metodi, secondo i quali sono tenuti a procedere nel porre in essere i loro atti; si stabiliscono, quindi, in termini di diritti e di doveri, i rapporti tra i cittadini e i pubblici poteri; e si ascrive ai pubblici poteri il compito preminente di riconoscere, rispettare, comporre armonicamente, tutelare e promuovere i diritti e i doveri dei cittadini; si diffonde la persuasione che le controversie tra i popoli non debbano essere risolte con il ricorso alle armi, ma invece attraverso il negoziato (DMC, V, pp. 521-566: Lettera enciclica PACEM IN TERRIS). -
Lo sapevamo. Tuttavia, sin dal primo istante, Pacem in terris è parsa una novità: nuovi i destinatari, nuova l’architettura, nuovo l’afflato pastorale, nuovo e inusitato, nella sua disarmante semplicità, il suo autore, che collocava, al giusto posto, le tessere del prezioso mosaico, provenienti dalle antiche e dalle moderne cave, dai tempi di Leone XIII e da quelli più recenti di Pio XII.
L’onorevole Pietro Nenni, che nel 1963 salutò con simpatia l’apparizione di Pacem in terris, e due anni dopo avrebbe partecipato a New York ad un seminario internazionale di studi sullo storico documento, ne era rimasto così colpito che, alla morte del pontefice, esternò il suo animo al segretario di stato Cicognani in termini inconsueti per un politico socialista:
- Ora che il triste evento è concluso, scrisse il 6 giugno 1963, mi consenta di rinnovarle l’espressione del mio cordoglio per la morte del sommo pontefice. La mia ritrosia contadina mi ha trattenuto dal cercare di vedere il papa in vita o morto. Né potrò domani ai funerali mescolarmi alla folla dei fedeli e degli uomini di buona volontà ai quali sovente si rivolgeva. Ma raramente ho sentito una eguale amarezza di fronte alla morte dei grandi della terra (Pietro Nenni, GLI ANNI DEL CENTRO SINISTRA. DIARI 1957-1966, p. 279). -
4. Abbiamo ennesima conferma che il dinamismo della pace si carica con la testimonianza. L’umanità, più o meno consapevolmente, vede realizzato il vaticinio biblico negli uomini che la irradiano con armonia ed impegno:
Ho innalzato un eletto tra il popolo mio.
Ho trovato Davide mio servo,
con il mio santo olio l’ho consacrato.
La mia mano è il suo sostegno,
il mio braccio è la sua forza (Salmi 89, 20-22).
Chi era e com’era Papa Giovanni? Come ha potuto suscitare tale plebiscito di consensi? Non nasconderemo che ci sia stato anche il dissenso. Ma il fatto assolutamente inedito del consenso rimane impresso nelle cronache contemporanee, “fenomeno di convergenza spirituale non prima d’ora, almeno in questa misura e in questa forma registrata nella storia” (PAPA GIOVANNI NELLA MENTE E NEL CUORE DEL SUO SUCCESSORE, Milano 1964, p. 101).
Come ha potuto? La risposta sta nel Salmo 89: “Ho innalzato un eletto tra il popolo mio”. L’eletto!
Il figlio dei contadini mezzadri di Sotto il Monte fa ricordare il piccolo Erni di André Schwarz-Bart, l’autore del poderoso affresco L’ULTIMO DEI GIUSTI, rievocazione apocalittica delle infamie perpetrate nei lager nazisti. Il bambino interpella l’anziano, l’innocente il sapiente, l’oppresso la sua guida spirituale: Bisogna sempre tacere? Lasciarsi schiacciare? Il bimbo chiede espressamente:
- Dimmi, venerabile nonno, che cosa deve fare un giusto nella vita? Quando fundamenta evertuntur, iustus quid facere valet? (Sal 10, 3).
- Al sole, amore, mormorò esitando, al sole chiedi di far quel che fa? Sorge, tramonta. Ti rallegra l’animo.
- Sì, ma i giusti, insisté Erni.
- È lo stesso. I giusti sorgono, i giusti tramontano, ed è bene. Erni, piccolo rabbino mio, che mi stai chiedendo? Io non so molto e quel che so è nulla, perché la saggezza è restata lontana da me. Ascolta, se tu sei un giusto, verrà il giorno in cui da solo ti metterai a far luce. Capisci? (André Schwrz-Bart, L’ULTIMO DEI GIUSTI, Feltrinelli Ed. Milano 1963, pp. 195-196).
Succede, con non molta frequenza, ma succede, che il cristiano si metta a far luce. Ciò accade quando egli custodisce fedelmente le tavole della legge e si ritiene amministratore dei beni creati. La sua vita è uno specchio. Si vede chi egli è, cosa fa, dove và. Se è un giusto, e la Provvidenza lo conduce, attraverso le vie del mondo, a mettersi in contatto con altri suoi simili, di area religiosa e culturale diversa dalla sua, egli illustra con la sua condotta il testamento ecumenico del cardinale Mercier: “Per unirsi bisogna amarsi. Per amarsi occorre conoscersi. Per conoscersi fa d’uopo andarsi incontro l’un l’altro” (ECUMENISMO SPIRITUALE. SCRITTI DI PAUL COUTURIER, Ed. Paoline 1965, p. 25).
Confrontiamo questo criterio con la traccia lasciata il 17 maggio 1952 dal nunzio apostolico Roncalli alla conferenza generale dell’Unesco:
- Voi tutti, rappresentanti di ideologie e religioni diverse, che l’Unesco ha saputo riunire insieme a Parigi, vogliate accettare l’augurio di una continuità di buoni rapporti tali da condurci all’affermazione di fraternità e di pacifica convivenza della comunità umana. Se regarder, sans se défier. Se rapprocher, sans se craindre. S’entr’aider, sans se compromettre. Ecco già un buon programma di azione per il progresso della vita sociale, seguendo gli scopi dell’Unesco. Insieme noi percorreremo la retta via (Angelo Giuseppe Roncalli, SOUVENIRS D’UN NONCE, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1963, p. 108).
Sarebbe già evento formidabile se imparassimo a guardarci negli occhi, senza sfidarci; ad accostarci, senza volerci incutere paura; a stare insieme, senza compromissioni lesive della dignità di ciascuno.
Uomini occorrono, uomini la cui condotta sia la traduzione dei documenti; uomini interiormente liberi, dotati di carisma religioso, poetico e profetico.
5. La storia contemporanea attesta l’azione di pace compiuta dai papi con una costanza che ci riconduce alla formula coniata dall’indimenticabile e geniale don Primo Mazzolari: Pace, nostra ostinazione.
Ancorché la valutazione sui singoli e sugli atti di ciascuno sia diversificata, da Leone XIII a Benedetto XVI si riconosce il susseguirsi e il crescendo dell’attività arbitrale compiuta dai pontefici romani, necessariamente non intesa in senso stretto, non sempre coronata da successo, finalizzata comunque ad aiutare gli uomini a raggiungere gli spazi della pace cristiana.
Nella prefazione alla traduzione ebraica dell’enciclica Pacem in terris, lo storico Davide Flusser ammette lealmente che per la chiesa “l’ispirazione alla pace è rimasta sempre il punto cardine della concezione cristiana”.
Negli anni più recenti, a Robert Ardrey che nel suo AMERICAN GENESIS definiva “assurdo sperare che un giorno l’uomo possa arrivare al punto di risolvere le divergenze sul territorio a mezzo di arbitrati, invece che con le bombe”, Giovanni XXIII rispose con l’enciclica Pacem in terris: “Al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti” bisogna sostituire il principio che “la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia”; il disarmo è un obiettivo “che può essere conseguito, giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo ed è della più alta utilità; i rapporti tra le comunità politiche, come quelli tra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi,ma nella luce della ragione, cioè nella verità, nella giustizia e nella solidarietà operante (nn. 113-114).
Dalla nota dell’1 agosto 1917 di Benedetto XV: L’inutile strage, sino all’estremo appello 24 agosto 1939 di Pio XII: Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra, per citare due interventi che fecero epoca, la chiesa romana, in consonanza con le aspirazioni più profonde degli uomini onesti e dei moderatori di confessioni religiose diverse dalla cattolica, ha profittato di tutti i canali a sua disposizione, compresi quelli diplomatici, in via diretta o indiretta, per ridestare nelle coscienze dei capi delle nazioni il senso della loro responsabilità nel tutelare e favorire la pace, richiamandoli alla severità del giudizio di Dio e della storia.
La crisi dei Carabi (1962), iscritta nel clima dell’avviato Concilio Vaticano II e nell’alone di simpatia suscitato da Papa Giovanni, segnò un momento di spirituale mediazione della Santa Sede, universalmente apprezzato e ben accolto.
Tra molti altri, l’hanno testimoniato, in modo eccellente, Norman Cousins (consigliere di John Kennedy) e Giulio Andreotti. Tra le pieghe delle loro pubblicazioni: “The Improbable Triumvirate” e “Ad ogni morte di Papa”, è possibile indovinare molto più di quanto non vi si affermi esplicitamente.
Nell’ottobre 1962 l’umanità trattenne il fiato. Da una parte e dall’altra dei due schieramenti dominavano ostinazione e timore. Io sono convinto che, nemmeno per un solo istante, Kennedy e Krusciov avessero deciso in cuor loro di scatenare il conflitto. Ma poteva succedere; poteva accadere l’imprevisto, a seguito di un falso allarme. Invece non successe nulla di irreparabile. Il Papa pregò. Il Papa parlò. I suoi collaboratori della Segreteria di Stato e delle rappresentanze pontificie moltiplicarono e favorirono incontri, facilitati dalle dichiarazioni dei due massimi protagonisti, i quali avevano lasciato capire che la parola del Papa, autorevole a motivo della sua collocazione religiosa e del prestigio della sua riconosciuta amicizia per tutti i popoli, sarebbe stata positivamente valutata. Così fu. Sul piatto della bilancia pesarono, in favore della risoluzione pacifica della vertenza, il radiomessaggio papale del 25 ottobre, preventivamente fatto conoscere a Kennedy e a Krusciov, e la prudente azione diplomatica di alcuni operatori di pace (ecclesiastici e laici) cordialmente intesi ad amplificare l’accorato appello di Giovanni XXIII.
I missili sovietici vennero smontati; l’assedio navale di Cuba da parte degli Stati Uniti ebbe termine. Il mondo trasse un respiro di sollievo.
Ricevendo Cousins, in prossimità di natale 1962, Krusciov gli confidò: “Giovanni XXIII ha avuto una parte determinante durante la crisi dei Caraibi”. Scrisse inoltre al cancelliere Adenauer: “Sono comunista ed ateo, non posso condividere le concezioni filosofiche del Papa, ma il suo appello in favore della pace lo apprezzo e lo appoggio”.
Nell’aprile successivo, John Kennedy, nel commentare la Pacem in terris, nata nel clima della crisi dei Carabi, suggerita anche da quell’evento, ancorché concepita come sviluppo dell’insegnamento contenuto nella Mater et Magistra, affermò: “Questa enciclica mi rende fiero di essere cattolico”.
6. Lo spazio di questa testimonianza non consente ulteriore approfondimento; tuttavia dovrebbe bastare a convincere gli onesti osservatori che bisogna dar tempo al tempo, quando ci si avventura in giudizi sull’attività diplomatico - pastorale della Santa Sede, la quale, nella sua azione umanitaria, si muove sempre dal primo paragrafo della Pacem in terris, che recita così: “La pace, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”. Da questo ordine, che si esprime nei precetti del vecchio decalogo, discendono i dieci comandamenti politici, la cui inosservanza impedirebbe ad un regime di definirsi democratico:
1. CONSENTIRE A CIASCUN UOMO DI VIVERE SECONDO DIGNITÀ 2. FAVORIRE LA RICERCA DEL VERO 3. RICONOSCERE IL DIRITTO DI ONORARE DIO 4. RISPETTARE LA VOCAZIONE DI CIASCUNO 5. NON MORTIFICARE IL DIRITTO PRIORITARIO DEI GENITORI NELL’EDUCAZIONE DEI FIGLI 6. COMBATTERE ED ELIMINARE LA DISOCCUPAZIONE 7. DARE LA GIUSTA MERCEDE AL LAVORATORE 8. FAR MATURARE IN TUTTI IL DIRITTO DI ASSOCIAZIONE 9. APRIRE LE FRONTIERE 10. EDUCARE ALLA GESTIONE DELLA COSA PUBBLICA (cfr Pacem in terris, nn. 5-13).
Come punto fermo della diplomazia vaticana segnalerei l’ultima estemporanea dichiarazione di Papa Giovanni in limine vitae: “Ora più che mai, certo più che in passato, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non unicamente quelli della chiesa. Le circostanze odierne, le esigenze degli ultimi cinquant’anni, l’approfondimento dottrinale, ci hanno condotti dinanzi a realtà nuove, come dissi nel discorso di apertura del Concilio. Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Nell’ottica di questa estrema catechesi sui segni dei tempi, vorrei pregare coloro che portano pace (Mt 5, 9), a soffermarsi sul paragrafo 14 della lettera di Benedetto XVI per la “Giornata mondiale della Pace, 1° gennaio 2008: Superamento dei conflitti e disarmo”; a meditarlo con gaudio e speranza, con la fede dei patriarchi e dei testimoni di ogni cultura e religione, di ogni tempo e di ogni luogo:
«L’umanità vive oggi, purtroppo, grandi divisioni e forti conflitti che gettano ombre cupe sul suo futuro. Vaste aree del pianeta sono coinvolte in tensioni crescenti, mentre il pericolo che si moltiplichino i paesi detentori dell’arma nucleare suscita motivate apprensioni in ogni persona responsabile. Sono ancora in atto molte guerre civili nel Continente africano, sebbene in esso non pochi Paesi abbiano fatto progressi nella libertà e nella democrazia. Il Medio Oriente è tuttora teatro di conflitti e di attentati, che influenzano anche Nazioni e regioni limitrofe, rischiando di coinvolgerle nella spirale della violenza. Su un piano più generale, si deve registrare con rammarico l’aumento del numero di Stati coinvolti nella corsa agli armamenti: persino Nazioni in via di sviluppo destinano una quota importante del loro magro prodotto interno all’acquisto di armi. In questo funesto commercio le responsabilità sono molte: vi sono i Paesi del mondo industrialmente sviluppato che traggono lauti guadagni dalla vendita di armi e vi sono oligarchie dominanti in tanti Paesi poveri che vogliono rafforzare la loro situazione mediante l’acquisto di armi sempre più sofisticate. È veramente necessaria in tempi tanto difficili la mobilitazione di tutte le persone di buona volontà per trovare concreti accordi in vista di un’efficace smilitarizzazione, soprattutto nel campo delle armi nucleari. In questa fase in cui il processo di non proliferazione nucleare sta segnando il passo, sento il dovere di esortare le Autorità a riprendere con più ferma determinazione le trattative in vista dello smantellamento progressivo e concordato delle armi nucleari esistenti. Nel rinnovare questo appello, so di farmi eco dell’auspicio condiviso da quanti hanno a cuore il futuro dell’umanità».
Possiamo concluderne che ha detto bene il Papa del quale celebreremo il cinquantesimo di elezione il 28 ottobre 2008: “Non è il vangelo che cambia. Siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Comprendere è incarnare, testimoniare, pazientare, confidare. Vivere il vangelo in famiglia. Riconoscerlo codice che impegna ed inchioda. Altrimenti è babele, anarchia, guerra.
Solo il vangelo conduce l’umanità sulla soglia della Casa comune, perdonàti, allietati, riconciliati.
NON C’È PACE SENZA GIUSTIZIA
NON C’È GIUSTIZIA SENZA PERDONO
NON C’È PERDONO SENZA AMORE
+Loris Francesco Capovilla
arcivescovo di Mesembria
Vi intravedo le soglie di un’epoca nuova, l’aprirsi della primavera, come traspare dalla poesia Libèration, struggente anelito al rifiorire dell’Africa:
Mi bagnavano a poco a poco l’alba e il verde tenero
del prato imbevuto di schietta dolcezza.
E alzando gli occhi, oltre il sole dell’Est,
vidi spuntare le stelle, udii il cantico di pace.
Levant mon regard au delà du soleil, à l’Est,
je vis poindre les étoiles et entendis le cantique de paix (SÉDAR SENGHOR, a cura di Carlo Castellaneta, Nuova Accademia Ed. 1961, pp. 55 e 146-147).
Nel discorso rivolto a Senghor, all’indomani della peregrinazione a Loreto ed Assisi, il Papa così si esprimeva:
Hier soir, pendant que la cité d’Assisi allumait tous ses feux en signe d’amour de Dieu, de vénération au Saint Poverello, et de jubilation pour la présence du Pape, nous évoquions, sous les splendeurs de foi et d’art de la basilique papale, les images bibliques des fleurs qui grandissent et exhalent leur parfum pour la gloire de Dieu (cfr Sir 39, 13-14). Tel est le bouquet que, ce matin, monsieur le Président, nous offrons par vos mains au Sénégal et a toute l’Afrique jeune, fort, et tant aimée (DISCORSI MESSAGGI COLLOQUI DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII, IV, p. 573, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1959-1964).
Fratelli! Vedo coi miei occhi come fosse trascritto a caratteri cubitali, ed echeggia nelle mie intimità più profonde, il paragrafo 127 dell’enciclica Pacem in terris: “Aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione bellum iam aptum ad violata iura sarcienda”. In possesso della spaventosa capacità micidiale dell’energia termonucleare, gli uomini non possono più pensare di risolvere le controversie col ricorso alle armi. Sarebbe irrazionale, sarebbe diabolico. Alienum est a ratione.
Uomo ragionevole, respingo tutto ciò che è irrazionale; lo respingo energicamente, io, che potrei paragonarmi alla campana Maria dolens, che è stata costruita con spezzoni di armi provenienti da tutti i paesi belligeranti degli anni 1914-1918.
“Liberto affrancato dal Signore” (1 Cor 7, 22), sono infatti la risultanza dei rottami di catene spezzate, fusi nel fuoco dello Spirito.
Mi presento a voi con cuore traboccante di emozione, grato dei doni ricevuti dalla mia patria italiana, dagli apporti di culture ed esperienze universali, dalla Terra promessa decifrata dalla Bibbia.
Oso proclamare la pace con la mia lingua, che è stata appena lambita dal “carbone ardente, preso con le molle, dall’altare celeste”: Non è scomparsa la mia iniquità, il mio peccato non è stato espiato. Non avrei coraggio di dire: Eccomi, manda me, a predicare la pace (cfr Is 6, 6-8). Ancorché le mie mani non abbiano scagliato mai neanche una pietra contro chicchessia, mi sento corresponsabile di tutto il male del mondo, di tutti i conflitti che persistono, pienamente convinto che devo farmi carico delle “gioie e speranze, tristezze ed angosce” (cfr GAUDIUM ET SPES, n. 1) di tutti coloro che, dai messaggeri di Dio, attendono una testimonianza quant’altre mai schietta, coraggiosa ed eroica.
Mi piacerebbe essere un satyagrahi orientale, uno che aderisce alla verità e opera secondo il criterio di una resistenza civile non violenta, al pari di Acharya Vinoba Bahe, il discepolo prediletto di Gandhi. Negli anni cinquanta del secolo ventesimo, nell’avviare l’ardua impresa di ottenere qualche boccone di terra per i diseredati dalla fortuna, egli affermava:
- Sto facendo esperienza della presenza di Gandhi, come anche di quella del Supremo. Per natura, sono stato uomo della foresta, estraneo alla civiltà. Ora, invece, entro senza esitare nelle case di tutti. […] Invito ciascuno a farsi avanti e a mettersi al lavoro, in qualunque angolo dell’universo. Daremo luogo ad una rivoluzione che non ha precedenti nel nostro paese: la posso già vedere coi miei occhi. Si parla tanto della rivoluzione russa. L’America rappresenta un altro genere di rivoluzione. Ma né l’uno né l’altro esempio si accorda con il genio dell’India. Sono fermamente convinto che l’India, in coerenza con i suoi ideali, deve sviluppare un nuovo tipo di rivoluzione, basata esclusivamente sull’amore (Shriman Narayan, VINOBA, Cittadella Ed. 1974, p. 171). -
2. Come la propone questo convegno odierno, la riflessione sulla pace non è solo questione di dati storici, statistici, strategici; non è questione di silenzio: silenzio della resa senza condizioni dei vinti e dei deboli; silenzio dei cannoni e del sibilo dei missili; mistico silenzio dei cimiteri di guerra. No, non è questo. Primieramente è questione personale:
· se riesco a definire la pace
· se credo alla pace
· se voglio costruire la pace
· se posso edificare la pace
· se respiro nell’area della pace.
In definitiva, è questione di sapere se ho appreso che la pace è il territorio di Dio; è il capitolo secondo della Genesi, dove esultano l’armonia e il dialogo, dove l’uomo è consapevole della sua origine, del suo cammino, della sua crescita, dei suoi poteri e dei suoi limiti, del suo fine terreno ed ultimo.
Più che di documenti è questione di uomini. I documenti splendono, ma occorre divorarli, come attestano Ezechiele profeta e Giovanni l’autore dell’Apocalisse: “Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele” (Ap 10, 10; cfr Ez 3, 1-3).
La carta delle Nazioni Unite è un nobile documento, che onora la famiglia umana ed è finalizzata al superamento delle barriere tra vincitori e vinti, tra popoli grandi e piccoli, tra nazioni progredite e sottosviluppate. È una magna charta, che vuole esecutori, non proclamatori.
La costituzione della Repubblica Italiana può reggere il confronto coi documenti più alti dell’umana ragione e sensibilità.
Il suo articolo undici, lapidario ed inequivocabile, non ammette interpretazioni di comodo, non consente scivolamenti all’indietro, arretramento sul nazionalismo, strumentalizzazioni tattiche: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; [l’Italia] consente, in condizione di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; [l’Italia] promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Questo articolo si rafforza se riconsiderato nel contesto degli altri che precedono e coi quali è strettamente coniugato:
“La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione” (art. 1). “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2).
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3).
“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29).
“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità” (art. 30).
“La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo” (art. 31).
3. Ho citato un testo politico universale e uno italiano; eccoci ora ad uno magisteriale della Chiesa.
La Pacem in terris di Giovanni XXIII è da molti ritenuta uno dei testi cristiani più rilevanti del secolo ventesimo. Ed è, paradossalmente, il testo che non contiene nulla di assolutamente nuovo, essendo precisamente il compendio di tutte le voci autorevoli che via via hanno precisato i punti salienti ed indiscutibili del pensiero cristiano, a condanna della pseudo fatalità che obbligherebbe giovani uomini a scagliarsi gli uni contro gli altri, per uccidere e distruggere. Lo ripeto: non contiene nulla di assolutamente nuovo. Sapevamo d’intuito, e dalla catechesi, che “la pace sulla terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può essere instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio” (par. 1). Sapevamo che gli uomini saggi e retti devono prestare ascolto ai segni dei tempi. A proposito, così recita la costituzione apostolica Humanae salutis (25. XII. 1961):
- Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi (Mt 16, 4) ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della chiesa e dell’umanità. Giacché le guerre sanguinose che si sono susseguite nei nostri tempi, le rovine spirituali causate da molte ideologie e i frutti di tante amare esperienze non sono stati senza utili insegnamenti. Lo stesso progresso scientifico, che ha dato all’uomo la possibilità di creare ordigni catastrofici per la sua distruzione, ha sollevato interrogativi angosciosi, ha costretto gli esseri umani a farsi pensosi, più consapevoli dei propri limiti, desiderosi di pace. – (DMC, IV, pp. 868-869).
Questa constatazione poneva i pastori del gregge cattolico dinanzi alle responsabilità istituzionali, non ultimo il dovere di ripresentare la chiesa come ecclesia mundi, a servizio dell’umanità. A ragione il pontefice aveva formalmente affermato:
- Questo è ormai un principio entrato nello spirito di ogni fedele appartenente alla chiesa: di essere e di ritenersi veramente, in quanto cattolico, cittadino del mondo intero, così come Gesù del mondo intero è l’adorato salvatore. Buon esercizio di vera cattolicità è questo, di cui tutti i cattolici devono rendersi conto e farsi come un precetto, a luce della propria mentalità e a direzione della propria condotta nei rapporti religiosi e sociali (DMC, II, p. 394). -
Sembra che persino il filosofo Seneca si fosse liberato dalle strettoie nazionalistiche, dal momento che affermava: “Non sum uni anguli natus, patria mea mundus est. Non sono nato in un esclusivo angolo della terra; tutto il mondo è la mia patria” (Seneca, EPISTOLAE, 28).
Come i problemi dell’umanità nel loro insieme, così i vari aspetti e momenti dell’umana convivenza richiamano l’attenzione, lo studio, la creatività dei singoli credenti, sollecitati a muoversi partendo dalla individuazione dei fenomeni emergenti nell’epoca moderna, sistematicamente segnalati nella Pacem in terris:
- L’ascesa economico sociale delle classi lavoratrici, di cui ci si deve allietare, non spaventare; l’ingresso della donna nella vita pubblica, da favorire, non appena da tollerare; la famiglia umana profondamente trasformata nella sua configurazione socio politica: non più popoli dominatori e popoli dominati, tutti i popoli si sono costituiti o si stanno costituendo in comunità politiche indipendenti; le discriminazioni razziali non trovano alcuna giustificazione; nella organizzazione giuridica delle comunità politiche si riscontra la tendenza a redigere in formule concise una carta dei diritti fondamentali degli esseri umani, inoltre si tende a fissare in termini giuridici, per mezzo della compilazione di un documento denominato costituzione, le vie attraverso le quali si formano i poteri pubblici, come pure i loro reciproci rapporti, le sfere di loro competenza, i modi e i metodi, secondo i quali sono tenuti a procedere nel porre in essere i loro atti; si stabiliscono, quindi, in termini di diritti e di doveri, i rapporti tra i cittadini e i pubblici poteri; e si ascrive ai pubblici poteri il compito preminente di riconoscere, rispettare, comporre armonicamente, tutelare e promuovere i diritti e i doveri dei cittadini; si diffonde la persuasione che le controversie tra i popoli non debbano essere risolte con il ricorso alle armi, ma invece attraverso il negoziato (DMC, V, pp. 521-566: Lettera enciclica PACEM IN TERRIS). -
Lo sapevamo. Tuttavia, sin dal primo istante, Pacem in terris è parsa una novità: nuovi i destinatari, nuova l’architettura, nuovo l’afflato pastorale, nuovo e inusitato, nella sua disarmante semplicità, il suo autore, che collocava, al giusto posto, le tessere del prezioso mosaico, provenienti dalle antiche e dalle moderne cave, dai tempi di Leone XIII e da quelli più recenti di Pio XII.
L’onorevole Pietro Nenni, che nel 1963 salutò con simpatia l’apparizione di Pacem in terris, e due anni dopo avrebbe partecipato a New York ad un seminario internazionale di studi sullo storico documento, ne era rimasto così colpito che, alla morte del pontefice, esternò il suo animo al segretario di stato Cicognani in termini inconsueti per un politico socialista:
- Ora che il triste evento è concluso, scrisse il 6 giugno 1963, mi consenta di rinnovarle l’espressione del mio cordoglio per la morte del sommo pontefice. La mia ritrosia contadina mi ha trattenuto dal cercare di vedere il papa in vita o morto. Né potrò domani ai funerali mescolarmi alla folla dei fedeli e degli uomini di buona volontà ai quali sovente si rivolgeva. Ma raramente ho sentito una eguale amarezza di fronte alla morte dei grandi della terra (Pietro Nenni, GLI ANNI DEL CENTRO SINISTRA. DIARI 1957-1966, p. 279). -
4. Abbiamo ennesima conferma che il dinamismo della pace si carica con la testimonianza. L’umanità, più o meno consapevolmente, vede realizzato il vaticinio biblico negli uomini che la irradiano con armonia ed impegno:
Ho innalzato un eletto tra il popolo mio.
Ho trovato Davide mio servo,
con il mio santo olio l’ho consacrato.
La mia mano è il suo sostegno,
il mio braccio è la sua forza (Salmi 89, 20-22).
Chi era e com’era Papa Giovanni? Come ha potuto suscitare tale plebiscito di consensi? Non nasconderemo che ci sia stato anche il dissenso. Ma il fatto assolutamente inedito del consenso rimane impresso nelle cronache contemporanee, “fenomeno di convergenza spirituale non prima d’ora, almeno in questa misura e in questa forma registrata nella storia” (PAPA GIOVANNI NELLA MENTE E NEL CUORE DEL SUO SUCCESSORE, Milano 1964, p. 101).
Come ha potuto? La risposta sta nel Salmo 89: “Ho innalzato un eletto tra il popolo mio”. L’eletto!
Il figlio dei contadini mezzadri di Sotto il Monte fa ricordare il piccolo Erni di André Schwarz-Bart, l’autore del poderoso affresco L’ULTIMO DEI GIUSTI, rievocazione apocalittica delle infamie perpetrate nei lager nazisti. Il bambino interpella l’anziano, l’innocente il sapiente, l’oppresso la sua guida spirituale: Bisogna sempre tacere? Lasciarsi schiacciare? Il bimbo chiede espressamente:
- Dimmi, venerabile nonno, che cosa deve fare un giusto nella vita? Quando fundamenta evertuntur, iustus quid facere valet? (Sal 10, 3).
- Al sole, amore, mormorò esitando, al sole chiedi di far quel che fa? Sorge, tramonta. Ti rallegra l’animo.
- Sì, ma i giusti, insisté Erni.
- È lo stesso. I giusti sorgono, i giusti tramontano, ed è bene. Erni, piccolo rabbino mio, che mi stai chiedendo? Io non so molto e quel che so è nulla, perché la saggezza è restata lontana da me. Ascolta, se tu sei un giusto, verrà il giorno in cui da solo ti metterai a far luce. Capisci? (André Schwrz-Bart, L’ULTIMO DEI GIUSTI, Feltrinelli Ed. Milano 1963, pp. 195-196).
Succede, con non molta frequenza, ma succede, che il cristiano si metta a far luce. Ciò accade quando egli custodisce fedelmente le tavole della legge e si ritiene amministratore dei beni creati. La sua vita è uno specchio. Si vede chi egli è, cosa fa, dove và. Se è un giusto, e la Provvidenza lo conduce, attraverso le vie del mondo, a mettersi in contatto con altri suoi simili, di area religiosa e culturale diversa dalla sua, egli illustra con la sua condotta il testamento ecumenico del cardinale Mercier: “Per unirsi bisogna amarsi. Per amarsi occorre conoscersi. Per conoscersi fa d’uopo andarsi incontro l’un l’altro” (ECUMENISMO SPIRITUALE. SCRITTI DI PAUL COUTURIER, Ed. Paoline 1965, p. 25).
Confrontiamo questo criterio con la traccia lasciata il 17 maggio 1952 dal nunzio apostolico Roncalli alla conferenza generale dell’Unesco:
- Voi tutti, rappresentanti di ideologie e religioni diverse, che l’Unesco ha saputo riunire insieme a Parigi, vogliate accettare l’augurio di una continuità di buoni rapporti tali da condurci all’affermazione di fraternità e di pacifica convivenza della comunità umana. Se regarder, sans se défier. Se rapprocher, sans se craindre. S’entr’aider, sans se compromettre. Ecco già un buon programma di azione per il progresso della vita sociale, seguendo gli scopi dell’Unesco. Insieme noi percorreremo la retta via (Angelo Giuseppe Roncalli, SOUVENIRS D’UN NONCE, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1963, p. 108).
Sarebbe già evento formidabile se imparassimo a guardarci negli occhi, senza sfidarci; ad accostarci, senza volerci incutere paura; a stare insieme, senza compromissioni lesive della dignità di ciascuno.
Uomini occorrono, uomini la cui condotta sia la traduzione dei documenti; uomini interiormente liberi, dotati di carisma religioso, poetico e profetico.
5. La storia contemporanea attesta l’azione di pace compiuta dai papi con una costanza che ci riconduce alla formula coniata dall’indimenticabile e geniale don Primo Mazzolari: Pace, nostra ostinazione.
Ancorché la valutazione sui singoli e sugli atti di ciascuno sia diversificata, da Leone XIII a Benedetto XVI si riconosce il susseguirsi e il crescendo dell’attività arbitrale compiuta dai pontefici romani, necessariamente non intesa in senso stretto, non sempre coronata da successo, finalizzata comunque ad aiutare gli uomini a raggiungere gli spazi della pace cristiana.
Nella prefazione alla traduzione ebraica dell’enciclica Pacem in terris, lo storico Davide Flusser ammette lealmente che per la chiesa “l’ispirazione alla pace è rimasta sempre il punto cardine della concezione cristiana”.
Negli anni più recenti, a Robert Ardrey che nel suo AMERICAN GENESIS definiva “assurdo sperare che un giorno l’uomo possa arrivare al punto di risolvere le divergenze sul territorio a mezzo di arbitrati, invece che con le bombe”, Giovanni XXIII rispose con l’enciclica Pacem in terris: “Al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti” bisogna sostituire il principio che “la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia”; il disarmo è un obiettivo “che può essere conseguito, giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo ed è della più alta utilità; i rapporti tra le comunità politiche, come quelli tra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi,ma nella luce della ragione, cioè nella verità, nella giustizia e nella solidarietà operante (nn. 113-114).
Dalla nota dell’1 agosto 1917 di Benedetto XV: L’inutile strage, sino all’estremo appello 24 agosto 1939 di Pio XII: Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra, per citare due interventi che fecero epoca, la chiesa romana, in consonanza con le aspirazioni più profonde degli uomini onesti e dei moderatori di confessioni religiose diverse dalla cattolica, ha profittato di tutti i canali a sua disposizione, compresi quelli diplomatici, in via diretta o indiretta, per ridestare nelle coscienze dei capi delle nazioni il senso della loro responsabilità nel tutelare e favorire la pace, richiamandoli alla severità del giudizio di Dio e della storia.
La crisi dei Carabi (1962), iscritta nel clima dell’avviato Concilio Vaticano II e nell’alone di simpatia suscitato da Papa Giovanni, segnò un momento di spirituale mediazione della Santa Sede, universalmente apprezzato e ben accolto.
Tra molti altri, l’hanno testimoniato, in modo eccellente, Norman Cousins (consigliere di John Kennedy) e Giulio Andreotti. Tra le pieghe delle loro pubblicazioni: “The Improbable Triumvirate” e “Ad ogni morte di Papa”, è possibile indovinare molto più di quanto non vi si affermi esplicitamente.
Nell’ottobre 1962 l’umanità trattenne il fiato. Da una parte e dall’altra dei due schieramenti dominavano ostinazione e timore. Io sono convinto che, nemmeno per un solo istante, Kennedy e Krusciov avessero deciso in cuor loro di scatenare il conflitto. Ma poteva succedere; poteva accadere l’imprevisto, a seguito di un falso allarme. Invece non successe nulla di irreparabile. Il Papa pregò. Il Papa parlò. I suoi collaboratori della Segreteria di Stato e delle rappresentanze pontificie moltiplicarono e favorirono incontri, facilitati dalle dichiarazioni dei due massimi protagonisti, i quali avevano lasciato capire che la parola del Papa, autorevole a motivo della sua collocazione religiosa e del prestigio della sua riconosciuta amicizia per tutti i popoli, sarebbe stata positivamente valutata. Così fu. Sul piatto della bilancia pesarono, in favore della risoluzione pacifica della vertenza, il radiomessaggio papale del 25 ottobre, preventivamente fatto conoscere a Kennedy e a Krusciov, e la prudente azione diplomatica di alcuni operatori di pace (ecclesiastici e laici) cordialmente intesi ad amplificare l’accorato appello di Giovanni XXIII.
I missili sovietici vennero smontati; l’assedio navale di Cuba da parte degli Stati Uniti ebbe termine. Il mondo trasse un respiro di sollievo.
Ricevendo Cousins, in prossimità di natale 1962, Krusciov gli confidò: “Giovanni XXIII ha avuto una parte determinante durante la crisi dei Caraibi”. Scrisse inoltre al cancelliere Adenauer: “Sono comunista ed ateo, non posso condividere le concezioni filosofiche del Papa, ma il suo appello in favore della pace lo apprezzo e lo appoggio”.
Nell’aprile successivo, John Kennedy, nel commentare la Pacem in terris, nata nel clima della crisi dei Carabi, suggerita anche da quell’evento, ancorché concepita come sviluppo dell’insegnamento contenuto nella Mater et Magistra, affermò: “Questa enciclica mi rende fiero di essere cattolico”.
6. Lo spazio di questa testimonianza non consente ulteriore approfondimento; tuttavia dovrebbe bastare a convincere gli onesti osservatori che bisogna dar tempo al tempo, quando ci si avventura in giudizi sull’attività diplomatico - pastorale della Santa Sede, la quale, nella sua azione umanitaria, si muove sempre dal primo paragrafo della Pacem in terris, che recita così: “La pace, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio”. Da questo ordine, che si esprime nei precetti del vecchio decalogo, discendono i dieci comandamenti politici, la cui inosservanza impedirebbe ad un regime di definirsi democratico:
1. CONSENTIRE A CIASCUN UOMO DI VIVERE SECONDO DIGNITÀ 2. FAVORIRE LA RICERCA DEL VERO 3. RICONOSCERE IL DIRITTO DI ONORARE DIO 4. RISPETTARE LA VOCAZIONE DI CIASCUNO 5. NON MORTIFICARE IL DIRITTO PRIORITARIO DEI GENITORI NELL’EDUCAZIONE DEI FIGLI 6. COMBATTERE ED ELIMINARE LA DISOCCUPAZIONE 7. DARE LA GIUSTA MERCEDE AL LAVORATORE 8. FAR MATURARE IN TUTTI IL DIRITTO DI ASSOCIAZIONE 9. APRIRE LE FRONTIERE 10. EDUCARE ALLA GESTIONE DELLA COSA PUBBLICA (cfr Pacem in terris, nn. 5-13).
Come punto fermo della diplomazia vaticana segnalerei l’ultima estemporanea dichiarazione di Papa Giovanni in limine vitae: “Ora più che mai, certo più che in passato, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non unicamente quelli della chiesa. Le circostanze odierne, le esigenze degli ultimi cinquant’anni, l’approfondimento dottrinale, ci hanno condotti dinanzi a realtà nuove, come dissi nel discorso di apertura del Concilio. Non è il vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Nell’ottica di questa estrema catechesi sui segni dei tempi, vorrei pregare coloro che portano pace (Mt 5, 9), a soffermarsi sul paragrafo 14 della lettera di Benedetto XVI per la “Giornata mondiale della Pace, 1° gennaio 2008: Superamento dei conflitti e disarmo”; a meditarlo con gaudio e speranza, con la fede dei patriarchi e dei testimoni di ogni cultura e religione, di ogni tempo e di ogni luogo:
«L’umanità vive oggi, purtroppo, grandi divisioni e forti conflitti che gettano ombre cupe sul suo futuro. Vaste aree del pianeta sono coinvolte in tensioni crescenti, mentre il pericolo che si moltiplichino i paesi detentori dell’arma nucleare suscita motivate apprensioni in ogni persona responsabile. Sono ancora in atto molte guerre civili nel Continente africano, sebbene in esso non pochi Paesi abbiano fatto progressi nella libertà e nella democrazia. Il Medio Oriente è tuttora teatro di conflitti e di attentati, che influenzano anche Nazioni e regioni limitrofe, rischiando di coinvolgerle nella spirale della violenza. Su un piano più generale, si deve registrare con rammarico l’aumento del numero di Stati coinvolti nella corsa agli armamenti: persino Nazioni in via di sviluppo destinano una quota importante del loro magro prodotto interno all’acquisto di armi. In questo funesto commercio le responsabilità sono molte: vi sono i Paesi del mondo industrialmente sviluppato che traggono lauti guadagni dalla vendita di armi e vi sono oligarchie dominanti in tanti Paesi poveri che vogliono rafforzare la loro situazione mediante l’acquisto di armi sempre più sofisticate. È veramente necessaria in tempi tanto difficili la mobilitazione di tutte le persone di buona volontà per trovare concreti accordi in vista di un’efficace smilitarizzazione, soprattutto nel campo delle armi nucleari. In questa fase in cui il processo di non proliferazione nucleare sta segnando il passo, sento il dovere di esortare le Autorità a riprendere con più ferma determinazione le trattative in vista dello smantellamento progressivo e concordato delle armi nucleari esistenti. Nel rinnovare questo appello, so di farmi eco dell’auspicio condiviso da quanti hanno a cuore il futuro dell’umanità».
Possiamo concluderne che ha detto bene il Papa del quale celebreremo il cinquantesimo di elezione il 28 ottobre 2008: “Non è il vangelo che cambia. Siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
Comprendere è incarnare, testimoniare, pazientare, confidare. Vivere il vangelo in famiglia. Riconoscerlo codice che impegna ed inchioda. Altrimenti è babele, anarchia, guerra.
Solo il vangelo conduce l’umanità sulla soglia della Casa comune, perdonàti, allietati, riconciliati.
NON C’È PACE SENZA GIUSTIZIA
NON C’È GIUSTIZIA SENZA PERDONO
NON C’È PERDONO SENZA AMORE
+Loris Francesco Capovilla
arcivescovo di Mesembria