Lettera da Sezano n.6 Ottobre 2007

“Ma noi, o fratelli, orfani di voi per breve tempo, con
la presenza non con il cuore, ci siamo con estrema
premura preoccupati di rivedere il vostro volto”.
(1Tess. 2,17)

Carissimi Amici ed Amiche,

comprendiamo molto bene il forte desiderio di Paolo di Tarso di rivedere il volto degli
amici, o meglio, dei fratelli di Tessalonica. È il medesimo sentimento che proviamo verso di voi.
Il volto delle persone raccoglie i tratti dei passaggi di vita, le storie, gli amori, le sofferenze,
le consolazioni. Il volto è presenza che si dona. È vittoria sulla solitudine. È umanità.
“Sezano è molto bella- ci diceva un caro amico - ma la bellezza senza persone è solo
estetica. Quando invece ci sono le persone, la bellezza è vita!”. I volti sono vita!
Nel piccolo della nostra realtà, possiamo dire d’aver ricevuto il dono di un passaggio tanto
sorprendente quanto non da noi programmato: la Comunità è divenuta Famiglia. Al cuore di tutto,
ovviamente, sta la Comunità dei religiosi, ovvero dei membri della Congregazione Stimmatina che
risiedono a Sezano ma, strada facendo, altre persone si sono aggiunge alla Comunità per periodi più
o meno lunghi. Ognuno ha portato la sua ricchezza di esperienza. Ognuno ha condiviso con altri
l’ascolto della Parola e degli eventi della vita, la preghiera, la meditazione, doni di umanità. Ci
sembra insomma che l’esserci trovati assieme per tempi più o meno lunghi in questo luogo
costituisca la formidabile chiamata a diventare fratelli e sorelle. Ebbene, proprio per questo,
qualcuno comincia sommessamente a parlare di “Famiglia di Sezano”.
Da sempre abbiamo custodito la preoccupazione che Sezano non diventasse un centro
culturale.
“ Le proposte hanno il sapore ed il calore delle cose casalinghe. Ciò che per noi ha importanza sono
le persone... Accoglierci e camminare insieme, per non cedere alla banalità che talvolta ci circonda,
– dicevamo già nella lettera dello scorso anno - è quanto ci sta veramente a cuore”.
Per la verità, l’interesse per i volti non l’abbiamo inventato noi. È un modo di considerare la
vita che trova le sue più genuine espressioni in alcune correnti di pensiero contemporaneo, ossia in
quelle correnti che si impegnano, appunto, a prendere in considerazione la vita nella concretezza
delle relazioni, non nelle astrazioni dei massimi sistemi. Questa adesione amica e cordiale alla vita
della gente, che per noi comporta semplicemente un lasciare la porta sempre aperta, s’è consolidata
anche nei percorsi formativi e nei vari incontri che si sono tenuti lo scorso anno a Sezano. Pensiamo
alla meditazione “la Via del Silenzio” della domenica mattina, al seminario di “Elaborazione del
Lutto”, a quello su “Liturgia, poesia e prassi politica”, all’esperienza del corso “Teorico – pratico
di Iconografia” ed infine al cammino di “Alfabetizzazione di economia”. Le giornate estive, della
Lectio Divina sul sesto capitolo del Vangelo di Giovanni, la lettura delle riflessioni di Arturo Paoli
su “Eucaristia e denaro” e poi con Riccardo Petrella e la moglie Anne, ci hanno offerto l’occasione
di comprendere come dietro il rapporto con i beni comuni, rapporto di accaparramento o rapporto di
destinazione comune universale, sta una ben precisa filosofia di vita e quindi altrettanto precisi stili
di vita.
Comunità Stimmatini di Sezano
Continuare il discorso sull’economia, ovvero sulle regole della casa, ci sembra la strada
giusta per declinare in concreto quello spirito di famiglia che insieme stiamo scoprendo e gustando.
Diversamente non si costruisce vita insieme, ma solitudini di mondi chiusi. Coloro cui torna conto,
sostengono che le regole sono antistoriche, loro parlano appunto di deregulation.
Maestri di realismo, annunciando un umanesimo in cui le cose funzionano solo nella
competizione degli uni con gli altri, gli uni contro gli altri… lupi gli uni per gli altri. Per costoro
occorre garantirsi, difendersi dagli altri che ti invadono, aggrediscono la tua identità ed infine sono
una minaccia per le ricchezze che ti sei guadagnato con fatica.
Ecco allora che il tuo futuro, i tuoi affetti, la tua sicurezza e in definitiva la tua salvezza
dipendono unicamente da quei beni che, sottraendoli alla destinazione comune, hanno valore solo in
funzione di te. Sono loro la tua salvezza, la tua pace: “…dirò a me stesso: Bene! Ora hai fatto molte
provviste per molti anni. Riposati, mangia, bevi e divertiti”. (Lc. 12,19)
Paolo di Tarso non esita a definire idolatria un simile codice d’onore:
“Fate dunque morire le membra terrene: fornicazione, impurità, libidine, desideri sfrenati e
l’avidità di guadagno, che è poi idolatria”. (Col. 3,5)
Di idolatria si tratta, perché è totalizzante, pretende la consegna del cuore. Pervade
tutti gli anfratti dell’essere, dei pensieri, degli affetti, delle relazioni, dei sentimenti e delle
emozioni. L’idolo poi è sempre fascinoso. Ma quando meno te l’aspetti, ti si rivolta contro non
appena lo contraddici. Si impone a te con la forza minacciosa ed opprimente del dogma. Povertà e
ricchezza, giustizia ed ingiustizia è una questione di carattere sociale, certamente, ma non
primariamente. È anche ascetica, ma non solamente. È principalmente teologica. Non a caso Gesù
disse: “Non potete servire a Dio e a mammona”. (Lc. 16, 13)
Dedicheremo pertanto buona parte delle prossime iniziative di formazione a questi
argomenti. L’assenza di consapevolezza non è esente di conseguenze concrete. Chi non smaschera
l’idolo finisce per subirne i raggiri inconsapevolmente.
Mammona predica una religione in cui il cibo ed il vestito, ossia l’accaparramento dei beni e
le apparenze, sono prioritari: valgono più della vita. È la religione del mercato la cui antropologia
vede nell’essere umano un consumatore a immagine somiglianza del suo dio. Per essa il povero è
un eretico da scomunicare, uno scarto da criminalizzare. Il povero può assumere tutti i nomi che gli
accoliti di questa religione decidono di attribuirgli: fannullone, parassita, immigrato, rom,
clandestino, ateo, laicista, terrorista.
Dietro la sindrome del complesso identitario si sentono parole di difesa e di sospetto molto
violente perfino in alcuni settori della Chiesa. La parola fraternità sembra non esistere più.
Trascurata la vocazione ad essere “sacramento di unità per il genere umano” (Concilio Vat.II°) la
Comunità dei credenti sembra talvolta attestarsi sullo schema culturale del nemico.
Sul settimanale diocesano “Verona Fedele”(30 settembre 2007 n. 37, pag. 13), in un articolo
che metteva a confronto in termini apologetici le differenti visioni teologiche ed antropologiche del
Cristianesimo e dell’Islam, non senza un po’ di presunzione, l’autore giungeva ad elaborare
affermazioni tutte da dimostrare già nel sottotitolo: “per i musulmani (Dio) è Signore e Giudice;
per noi Padre, Salvatore e Redentore. Ma è la conclusione a lasciarci davvero sbalorditi,
soprattutto in considerazione del fatto che un settimanale diocesano ha la pretesa di ispirarsi al
Vangelo: “Nell’Africa del Nord, dove al tempo di Sant’Agostino prosperavano trecento diocesi, ora
se ne contano cinque. Allora valeva il proverbio: - Chi pecora si fa, lupo se la mangia -
(chiarissimo: occorre diventare lupi! ndr) ; perché non dovrebbe valere ora?- Infine, guizzo di
genio evangelico: “ Non ha detto il nostro Maestro: Siate prudenti come i serpenti e semplici come
colombe? Commenta il mio amico gerosolimitano padre Peter Madros: Non ha detto come le
oche”. Parole che si commentano da sole. Posta in questi termini la questione, occorre affermare
che siano proprio le religioni ad alimentare il principio della guerra. Non ci resta che invocare dal
buon Dio, di qualsivoglia confessione o confusione, un po’ di sano ateismo!

Diciamocelo con chiarezza: quella che stiamo vivendo non è una bella stagione nemmeno
in ambito ecclesiale.
Noi pensiamo invece che sia necessario recuperare il senso della Parola di Dio e della
trascendenza per andare oltre i nostri prodotti culturali. Non crediamo, in altre parole, di dover
spendere la benché minima energia per “difenderci”. Crediamo invece valga la pena dedicare vita,
amore, energie e passione per costruire la pace e per abitarla; non starcene in pace, ma nella pace.